Le parole e la politica

Questo testo è una parziale rielaborazione dell’intervento tenuto ad Arcevia, città natale di Fernando Palazzi, il 21 marzo 2004, in occasione di un convegno sul Dizionario Palazzi-Folena

Sento l’usura delle parole della politica, e la lontananza del linguaggio della politica dalla realtà. E di questo vorrei ragionare, prendendo in mano il Dizionario Palazzi-Folena.
Sono membro del Parlamento; e quando accompagno le visite delle scolaresche più piccole nei meandri di Montecitorio e, infine, al termine della visita, nelle tribune riservate al pubblico della maestosa aula parlamentare, alla domanda rivolta a loro su che cosa fanno i membri del Parlamento, più di una volta ho sentito rispondere –tutto sommato non senza ragione-: “i parlamentari? parlano!”. Anzi, si potrebbe aggiungere: a volte strillano, si insultano, arrivano alle mani. Il Dizionario Palazzi-Folena ci informa che questa parola –Parlamento- compare nel 1219, come “assemblea pubblica riunita per deliberare”.
Di parole semplici è fatta la memoria della Repubblica.
“Pace, pane e lavoro”, “la terra a chi lavora”, “la legge è uguale per tutti” erano missioni, speranze, principi ordinatori, ragioni di uno stare insieme per le generazioni che avevano conosciuto la guerra e il fascismo. E anche “studenti,operai uniti nella lotta”, “la fantasia al potere”, “tremate, tremate le streghe son tornate”, fino al più recente “agire locale, pensare globale”, per le generazioni successive –operaie, studentesche, femministe, ecologiste- erano parole, frasi, concetti che hanno avuto un senso analogo.
Pace voleva dire pace, pane pane e lavoro lavoro. Oggi non è più così. La politica, nella sua dimensione di rappresentanza istituzionale –sempre più esclusiva: si teorizzò all’inizio di questo ciclo involutivo addirittura “l’autonomia del politico”- ha via via prodotto una propria lingua. Separata dalla realtà. Tante volte rovesciata rispetto alla realtà.
Politichese. Tutto è cominciato lì. Questa parola –ci informa il Palazzi-Folena- è comparsa nel 1982: “nell’uso dei giornalisti, il linguaggio degli uomini politici, in quanto semanticamente oscuro o ambiguo e sintatticamente contorto, e per questo di difficile comprensione”. Dalle democristiane “convergenze parallele” agli “equilibri più avanzati” –immagini, a ben pensarci, ginnastiche-, che hanno segnato la crisi del primo “centro-sinistra” (col trattino) e il sentimento da parte del sistema di non con-tenere più il cambiamento sociale: la parola della politica si scinde dalla vita, e diviene auto-referenziale. Ad essa faceva da contraltare la dannunziana “geometrica potenza” cantata dai nostrani “maitres à penser” del gauchismo.
A sinistra presto si è passati dal “compromesso storico” – un’aggettivazione talmente importante di un sostantivo tanto “compromesso”, da fornire a quella proposta una forza politica quasi “magica”- al “nuovo quadro politico”, al “ governo delle astensioni”, alla “solidarietà nazionale” fino ai “governi di programma”: parole che descrivevano, con la loro algida e ragionieristica astrattezza burocratica, un importante tentativo di cambiare, tuttavia incapace di proporre parole e di produrre emozioni mobilitanti. E non è un caso che il tentativo di portare parole dense di senso reale –come “questione morale” e “austerità”, per non parlare del berlingueriano inno al “ ‘folle’ Francesco che contestava in modo radicale la ‘ragionevolezza’ della guerra, delle crociate e la distinzione tra ‘guerre giuste’ e ‘guerre ingiuste’ “- sia stato prima rubricato e poi archiviato, anche a sinistra, come un’eresia o una stranezza.
Addirittura un intero decennio è stato vissuto sotto il segno –diciamolo, un po’ intimidatorio- della parola “preambolo”. Neppure una “prefazione” o un’ “introduzione” –che già richiedono un qualche pensiero critico in più-: ma dieci anni di “preambolo” che sinceramente facevano immaginare quello sviluppo non edificante dei capitoli non ancora scritti che poi gli italiani hanno dovuto conoscere e di una trama finita nelle aule giudiziarie nel 92.
Mani pulite non compare nel Palazzi-Folena. Il Dizionario, infatti, uscì nel marzo del 1992 poco dopo la scomparsa del protagonista di quel radicale rifacimento del Palazzi e, successivamente, per incomprensibili ragioni di mercato, non ha più conosciuto nuove edizioni.
In quei giorni Chiesa cominciava a parlare. Compare, nel Dizionario, “mani sporche” (“di chi è stato immischiato in affari loschi”) , in un’Italia dominata dalla convinzione che per fare politica bisogna “avere le mani in pasta”. “Mani pulite” rompe il linguaggio autoreferenziale della politica –chiamiamolo “tangentopoli”, sviluppo sistemico di quel “tangentista”, termine nato, ci dice il Dizionario, nel 1983, all’epoca del primo grande scandalo di Torino-; e così rompe quel linguaggio autoreferenziale il contrasto a “mafiopoli” (anche la mafia ha a che fare con le mani, come ci ricorda l’antico termine , era il 1905, di “manonera”).
Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica –quei due anni tra il 92 e il 94- è stato così segnato da una forte rottura col “politichese” che non ha mancato di disturbare i nostalgici del vecchio sistema –i sindaci eletti direttamente bollati come “cacicchi” (termine caraibico, comparso nel 1525, incomprensibilmente importato nell’Italia contemporanea) o, se riuniti nelle “centocittà”, chiamati con sottile sarcasmo “centopadelle”. E se anche la “società civile” costruisce il suo linguaggio e la sua retorica –non sempre felice- nella sua ingenerosa critica ai “politici” in quanto tali (intesi come classe, ceto, casta), c’è qui la fotografia dei quindici anni precedenti, in cui il linguaggio della politica è stato, come detto, il “politichese”. Basti pensare al successo della parola “inciucio”, termine di origine dialettale –viene dalla Campania- di straordinaria fortuna negli anni di governo del centrosinistra (ora diventato senza trattino). Anche a destra la Lega innova il linguaggio politico. Fino a costruire ex-novo una storia padana, un mito padano, un immaginario padano che trovano i loro fondamenti non nella storia e nella realtà, ma in Tolkien e in un medioevo da serial televisivo. Certo: rimane difficile, malgrado Tolkien, immaginare nella storia padana le ragioni che hanno spinto nel 2004 il Ministro della Giustizia della Repubblica Italiana a saltare davanti a Montecitorio cantando “chi non salta, italiano è, è !”.
La realtà torna ad irrompere nel Palazzo. Non ha le forme delle tute blu, del disagio sociale, delle culture giovanili di tendenza. Ma ha quella dell’impasto tra linguaggio del calcio e linguaggio aziendale-pubblicitario –linguaggi, entrambi, sui quali ricordo l’interesse e gli studi di mio padre e dei suoi allievi-. “Scende in campo”, l’uomo delle tv, con gli “azzurri”, perché il “mercato politico” ha lasciato aperto un vuoto che non può non essere occupato da una nuova marca elettorale di successo. E quando, travolte le deboli linee di comunicazione degli oppositori, quella nuova lingua si fa potere, e rischia di allontanarsi e burocratizzarsi, e di dissolversi ancora una volta nel politichese, ecco rifondare l’”anticomunismo” –nell’impossibilità di rifondare o riesumare il comunismo- come tratto identitario prevalente. Dell’ “anticomunismo”, parola nata nel 1946, all’inizio della guerra fredda, il Palazzi-Folena dice semplicemente “ostilità al comunismo”. Del nuovo anticomunismo nato nel 98 dopo la fine del comunismo e senza comunismo, e in amicizia fraterna col comunistissimo Vladimir Putin, non so cosa il Dizionario avrebbe potuto scrivere. Sicuramente uno storico potrebbe definire il cemento che, loro malgrado, lega tutti gli oppositori di Berlusconi, come “ostilità all’anticomunismo senza comunismo”. E, a ben pensarci, l’ “anticomunismo” di questi anni non è altro se non la versione casereccia della teoria manichea dell’ “asse del male” che regge la politica della principale potenza mondiale.
Non si sfugge quindi alla sensazione che, in questo lifting linguistico –lifting, e cioè “operazione di chirurgia estetica”, chiamata meno fascinosamente “ritidectomia”, e oggi finalmente diventato affare di stato, atto di governo, vero e proprio nuovo “intervento pubblico”-, un lifting del linguaggio della politica, si potrebbe finire col rimpiangere le formule autistiche del politichese.
Mi torna in mente la neolingua immaginata, in quel capolavoro senza speranza che è 1984, da George Orwell.
L’intelligente Syme –ricordate-, troppo intelligente (“è troppo intelligente”, pensa Winston Smith,”…Syme verrà senz’altro vaporizzato”), è il curatore della revisione del Dizionario: ma il suo compito, a differenza di quello di Fernando Palazzi o di Gianfranco Folena, come di tanti altri curatori di dizionari, non è quello di far vivere la lingua e di arricchirla, ma di distruggerla. “Stiamo dando alla lingua la sua forma finale…Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole…centinaia ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso”. Sì, perché nel dominio totalitario di Oceania, la cultura e il pensiero critico sono il principale pericolo. “Il principale intento della neolingua consiste nel semplificare al massimo le possibilità di pensiero”. Lo “psicoreato” (e cioè il delitto di pensiero) diventerà impossibile perché non ci saranno più le parole per esprimerlo.
Don Lorenzo Milani qualche anno dopo Orwell diceva che il divario da colmare tra il padrone e l’operaio era tra chi possedeva 1500 parole e chi, invece, 150. Oggi si parla di digital divide.
“Il grosso delle stragi –prosegue Syme- è nei verbi e negli aggettivi, ma ci sono anche centinaia di sostantivi di cui si può fare benissimo piazza pulita”. Altro che dizionario dei sinonimi: i sinonimi vanno distrutti, ma anche gli antonimi (“in fondo che ragione c’è di mantenere una parola che è soltanto l’opposto di un’altra parola?”). Così cattivo diventerà “sbuono”, eccellente “plusbuono”, meraviglioso “bisplusbuono”. E, per essere più concreti, dovranno sparire parole come onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scuola, religione.
Oggi domina una neolingua figlia della TV commerciale, in cui le parole cambiano di senso. Abbiamo anche noi quei due minuti d’odio, perno della propaganda del regime orwelliano, fatti di spot che interrompono le emozioni. “Chi controlla il passato –scrive Orwell- controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato”.
Meditiamo. “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza” sono i tre slogans del partito unico. Noi, accontentati da un più modesto “tutto per tutti” –salvo, per non sbagliarsi, la cultura e la libertà di pensiero-, abbiamo in questi anni visto chiamare pace la guerra e libertà il privilegio di pochi. La “guerra è pace” –penso alle straordinarie giornate planetarie contro la guerra del 15 febbraio 2003 e del 20 marzo 2004, un anno dopo l’inizio della tragedia irakena- potrebbe essere una descrizione efficace della dottrina della guerra preventiva e della guerra permanente. Di “guerra permanente” –vorrei notare- nel 1948 parla profeticamente Orwell: “la stessa parola guerra è divenuta equivoca. Sarebbe probabilmente esatto dire che, una volta diventata continua, senza più interruzione, la guerra ha cessato propriamente di esistere”.
E così si dice libertà e si intende privilegio, abolizione del falso in bilancio, condono edilizio –esattamente il contrario delle aspirazioni libertarie dipinte da Pelizza da Volpedo o scritte nei Quaderni, in carcere, da Antonio Gramsci-. Si dice mercato e non si intende più (Palazzi-Folena) “l’area dello scambio di merci e denaro” ma una società in cui tutto è solo “scambio di merci e di denaro”. Si dice flessibilità –“il piegarsi facilmente senza spezzarsi”- e si intende sfruttamento, precarizzazione, assenza di diritti: un giovane flessibile, ho l’impressione, a forza di piegarsi prima o poi si spezza. Si dice garantismo e non si intende, cito il nostro Dizionario, “il principio giuridico che contempla una stretta osservanza dei diritti costituzionali relativi alle libertà individuali contro ogni possibile arbitrio del potere pubblico”, ma l ‘ “impunità” e addirittura l’ “impunibilità” di una casta di privilegiati. Si dice, infine, federalismo e si intende secessione, divisione, egoismo e non il loro contrario, e cioè la “dottrina politica favorevole alla federazione di più stati”.
Comunista, giustizialista, massimalista, pacifista, radicale sono invece tra le parole con cui non solo i profeti della neolingua ma tanti benpensanti liberali e democratici catalogano chi non si adatta –preti, giornalisti, sindacalisti, genitori che protestano per l’abolizione del tempo pieno, no-global- non solo al pensiero unico –per la verità molto unico e poco pensiero- ma alla sua lingua semplificata, alla sua distruzione di aggettivi, verbi, sostantivi, sinonimi, antonimi.
La parola magica è, davvero, riformismo. Una volta i riformisti erano “i fautori di una linea di azione politica tendente a migliorare le strutture politiche, sociali ed economiche di un paese attraverso riforme graduali”. E i socialisti riformisti erano coloro –scrive ancora il Palazzi-Folena- “che considerano gran parte delle rivendicazioni del proletariato conseguibili nei regimi borghesi”. Maledetti estremisti, verrebbe da dire oggi, altro che socialisti riformisti! Ed io, riformista di famiglia e di vocazione, mi autosospendo, spero per poco, da questa categoria perché il vocabolario è cambiato. Riformista è solo chi accondiscende, chi è moderato, chi non mette in discussione la religione del tempo presente e, soprattutto, chi definisce ogni idea diversa dalla propria comunista, giustizialista, massimalista, pacifista, radicale. Riformista anzi, è perfino un quotidiano, che misura il tasso di affidabilità della classe politica, vera e propria Pravda del nuovo credo globale.
Eppure quella grande ispirazione botanica, floreale, agricola –l’ulivo, la quercia, la rosa, la margherita, che sbocciano in aprile, con il sole che ride; e, perché no, anche il libro, la falce e il martello- sembrava, e potrebbe ancora farlo, in modo forse un po’ naif, nominare il vivente umano e non umano, la vita, l’acqua, l’ambiente, il lavoro, la centralità della persona. Ha mobilitato coscienze, comunità, collettività e individui, al di là della politica del Palazzo. Allude, questa terminologia, a un nuovo realismo, inteso non come moderazione o rinuncia, ma come “senso concreto della realtà”. Quello stesso realismo che ispirò –chiamandosi neorealismo- alcune delle pagine più straordinarie del cinema e dell’arte italiana del secondo dopoguerra.
Anche l’ultima versione da giardino d’infanzia –dai girotondi al triciclo (parola di cui ammetto una sia pur inconsapevole paternità, nell’ottobre scorso)- porta comunque freschezza e vitalità nel mondo istituzionale e dei partiti. Persino al recente Congresso della Margherita la metafora più usata è stata quella di una bimbetta, ormai di due anni, che cresce in salute (e che, vista l’età, non dovrebbe aver certo bisogno di ritidectomia!).
Ma sarebbe un’illusione pensare che alla politica sia sufficiente ri-nominarsi, tra giardini veri e propri e giardini d’infanzia, per tornare nella realtà, assumerne i linguaggi, i non detti, le sofferenze e le speranze, riprendere consenso e prestigio.
La mia opinione è che siamo al termine di una lunga stagione in cui l’economia ha dominato sulla politica. E così la parola globalizzazione –che nel 1992 veniva dal Dizionario considerata esclusivamente nella sua accezione psicologica, e cioè “il processo conoscitivo con cui il bambino percepisce un oggetto nel suo insieme ed in seguito lo scompone isolandone gli elementi costitutivi”- ha conosciuto, nella seconda metà degli anni 90, una fortuna strepitosa, prima come sinonimo di un nuovo paradiso in terra, in cui tutti potevano guadagnare senza faticare cifre da Paperon dei Paperoni nel nuovo mercato –la nuova economia, poi progressivamente derubricata a net-economia-; e poi, da Seattle (era il 99) in poi è divenuta sinonimo di sfruttamento, ingiustizia, povertà, guerra. Forse siamo stati anche noi, negli anni 90, come quel bambino del Dizionario che prima ha percepito “un oggetto nel suo insieme” –il pianeta, la sua unicità- e poi lo ha scomposto “isolandone gli elementi costitutivi” –nord/sud, le privatizzazioni dei beni comuni, gli organismi geneticamente modificati, la brevettabilità dei farmaci, il dominio Microsoft, la guerra preventiva, e via dicendo-.
Il richiamo, brusco, di un mondo che brucia e che può esplodere in odio e in violenza sconosciute –perfino teorizzate dagli ideologi neoconservatori dello scontro tra civiltà- è a una politica che non si perda in bizantinismi o che non pensi che la neolingua nostrana la si batte con un nuovo politichese (penso alla preoccupante e improvvisa popolarità, nei giorni scorsi, del termine postale spacchettamento). Una politica che torni alla realtà, a pensare e a dimostrare che quando si dice pace si dice per davvero pace, e che la guerra è la guerra, e che non ci sono guerre giuste e guerre ingiuste. E la libertà è la libertà e il privilegio il privilegio…Una politica che dica “pane al pane e vino al vino”.
Ma c’è bisogno di una politica che sappia soprattutto evocare una speranza. E’ una parola importante. A generazioni di operai e di braccianti la speranza ha permesso di lenire l’assenza del pane e dei diritti. Oggi il furto principale compiuto nella nostra civiltà è un furto di speranza.
Ha detto Theo Anghelopulos, regista greco, dopo la sconfitta della sinistra nel suo Paese, che la sinistra ha perso “perché da tempo ormai le mancano le parole che parlano del futuro, dell’avvenire del mondo. La sinistra è muta”. “Quando finiscono le parole che parlano di speranza, quando i sognatori tacciono allora arrivano i manager”.
Oggi specie dai più giovani viene un’inedita domanda di senso: delle parole correnti, di un modello di sviluppo, di un’organizzazione sociale, di un’altra percezione del tempo. Si diffonde oggi, profonda e trasversale, la percezione di una crisi di civiltà.
Non c’è tanto bisogno di inventare nuove parole. Ma certo dobbiamo impedire che i nostri Syme continuino a distruggerne.
Ne ho sentite alcune, tanto antiche quanto dimenticate o trascurate, tra Porto Alegre e Mumbai. Lavoro, cultura, acqua, beni comuni, eguaglianza, cittadinanza, democrazia, giustizia, generosità, europa, legge, pubblico, laicità, migranti, nonviolenza, passione, partecipazione, utopia, solidarietà, e potrei proseguire…
Fa tuttavia piacere –alla mia parte politica, ma credo che potrebbe specularmene valere per la parte avversa- sentire che il nuovo premier spagnolo, oltreché rinnovare gli impegni presi, senta anzitutto il dovere di dire: “il potere non mi cambierà”. Si vedrà. E se poi saremo capaci, non facendoci cambiare dal potere, di cambiare noi il potere.
Ma intanto è un buon inizio per un buon programma e per un buon impegno: riformare la politica, cominciando da noi stessi, dalle nostre opere e, prima ancora, proprio perché si dice che le parole sono pietre, dal nostro linguaggio.