Berlinguer e la Questione morale per il rinnovamento della politica

1. La questione morale rappresenta uno dei tratti più significativi della modernità di Enrico Berlinguer. Accanto a concetti come austerità –paradigma della questione ambientale-, come rivoluzione femminile –la rivoluzione più importante del ‘900- e alla percezione di una vera e propria ‘crisi del mondo’ (e’ qui la radice del pacifismo berlingueriano)- la questione morale è uno dei ‘pensieri lunghi’ su cui, afferma nell’intervista all’Unità del dicembre 1983 sul 2000, “occorre reinvestire la politica”.
Nel PCI, nel suo gruppo dirigente, in modo palese o in forma più discreta, era allora radicata la convinzione di cui parla Fassino nel suo libro (Per passione, ed.Rizzoli,2003): e cioè che l’ultimo Berlinguer –quello degli euromissili, della scala mobile, dell’alternativa democratica- segnasse “la deriva identitaria e solipsistica di un partito che, di fronte al presente, non sa opporsi al richiamo delle sirene del passato”.
Non la penso in questo modo. Credo al contrario che nel Berlinguer della questione morale non vi fossero le “sirene del passato”, ma semmai una convinzione quasi profetica, prima del tempo. Il passato era il “compromesso storico”, quella lunga marcia democratica che da Togliatti a Berlinguer aveva condotto il PCI alle soglie del governo e alle soglie della socialdemocrazia. Il futuro appariva invece segnato da una crisi del mondo –crisi di civiltà, diremmo oggi- e da una crisi della politica e delle sue forme fino ad allora conosciute. C’è nel Berlinguer dal 1978 al 1984, una febbre di ricerca, la comprensione di una fase lunga, in cui non sarebbero bastati aggiustamenti e tatticismi. Temi trascurati o sottovalutati anche da una parte del suo partito e della sinistra, che dava dello sforzo di Berlinguer una lettura moralistica, identitaria, settaria: e non di un’impresa di lunga lena, anticipatrice e innovatrice –come io penso-, che si spezzò nel giugno del 1982 a Padova.

2. La centralità della questione morale nasce, fondando la proposta politica di un’ alternativa democratica, nei giorni successivi al terremoto dell’Irpinia e della Basilicata del novembre del 1980. Nasce in una conferenza-stampa, con al fianco Bassolino e Fumagalli, dopo aver visto le macerie del terremoto e quelle delle istituzioni colpevoli dei drammatici ritardi nei soccorsi denunciati dal Presidente Sandro Pertini: quelle macerie mettevano a nudo quanto, nel fallimento delle politiche di solidarietà nazionale, ci fosse stato di un sistema politico e istituzionale corroso e malato. E Berlinguer, in un’intervista a Reichlin, afferma in quei giorni che “il processo di distacco tra Paese e istituzioni” è arrivato ad un punto drammatico. “La questione morale esiste da tempo. Ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale, poiché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni”. Berlinguer teme che “lo scivolamento verso esiti oscuri e avventurosi prima o poi divenga inevitabile”. Vede il rischio –quale profezia quattordici anni prima della “discesa in campo” dell’uomo delle televisioni ! – che questa crisi si risolva “invocando un uomo forte”, “cambiando il carattere parlamentare della Repubblica”.
La percezione dell’emergere di una questione morale –che poi, scomparso Berlinguer, devasterà l’Italia degli anni 80, fino al 92- nasce anzitutto dalla sacrosanta indignazione per ruberie, camarille, caduta di etica pubblica e di senso delle istituzioni. “I partiti non fanno più politica”, dirà Berlinguer nel luglio dell’81 a Scalfari, “sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi e vaghi; sentimenti e passione civile, zero”. Trovo che raramente un giudizio sia stato così efficace, sintetico e, purtroppo, destinato a durare nel tempo.
Il “preambolo”, prima, e poi il pentapartito e infine il CAF , in realtà furono un disegno di trasformazione del sistema politico, dopo il 68 e dopo gli anni 70, che, anche sull’onda tragica degli anni di piombo e di uno spostamento moderato, ha cercato di chiudere o sterilizzare le domande sociali e le soggettività dei movimenti in un nuovo dominio della politica. E’ la reazione di un potere che era stato profondamente scosso e che, usando la leva della spesa pubblica, dell’indebitamento e della lira svalutata, ha costruito un’Italietta chiusa e protezionistica, in cui hanno fatto fortuna i Tanzi, i Berlusconi, i Gardini e tanti altri, in connessione perversa con le diverse ali del “pentapartito”; e soprattutto con le due grandi correnti politiche in competizione che segnarono quegli anni, quella craxiana, sostenuta dalla destra democristiana e dalla destra comunista, e quella della sinistra DC, cui guardò con più simpatia una parte del PCI. Era una stagione in cui Romiti e la FIAT non pensavano più a costruire buone macchine perché tanto gli affari si facevano con le opere pubbliche.
Il “pentapartito” fu la sistematizzazione di quell’impianto. Dietro c’è una vera e propria idea della politica e del potere che concede spazio solo a competizioni interne. Tanti, nel campo socialista e in quello della sinistra cattolica, non condivisero e non praticarono quella degenerazione. Ma essa non fu fermata.
Alle spalle di quella degenerazione si era fatta strada, anche in settori significativi dell’intellettualità di sinistra, l’ideologia dell’ “autonomia del politico”, versione modernizzata di un dirigismo e di una primazia della politica pura, dietro cui si celava un distacco dalla realtà, dai suoi cambiamenti e dalle sue domande. Rimango convinto che al PCI e a Berlinguer mancò una proposta di riforma democratica e istituzionale capace di contrastare efficacemente quelle tendenze. Pietro Ingrao, dai vertici del Centro di riforma dello Stato, pose incompreso il problema.
Non si percepì appieno, nel gruppo dirigente del PCI, il nesso tra questione morale e questione democratica. Ma temo che comunque le cose sarebbero andate nella direzione che effettivamente si è presa, perché il grande ciclo liberista dal cuore degli USA e della Gran Bretagna, faceva sentire proprioin quegli anni la sua spinta, a tratti inarrestabile.

3. Il cuore della questione morale berlingueriana non è quindi il contrasto a Craxi. Giova anzi ricordare che, alla vigilia delle elezioni dell’83, ci fu un incontro a Frattocchie fra i due leaders del PCI e del PSI, in cui forse il gruppo dirigente di Botteghe Oscure si illuse di una possibile prospettiva di alternativa; e che certo l’uso politico che Craxi fece del voto di quell’anno provocò legittimamente la reazione e l’indignazione di Berlinguer. Il cuore è la consapevolezza anche amara e preoccupata dell’insufficienza dei partiti e del sistema politico.
Si è discusso molto del termine diversità usato da Berlinguer a proposito dei comunisti italiani. Non mi sfuggono, in alcune sue definizioni, l’elemento di presunzione ideologica e di diffidenza verso le forze socialdemocratiche. Ma, in quella diversità, c’era prima di tutto l’aspirazione ad una politica diversa.
Nel noto articolo su Il contemporaneo del dicembre 1981 (“Rinnovamento della politica e rinnovamento del PCI”) Berlinguer apre, fin dal titolo, una sfida interna al partito: la diversità qui, in modo sobrio, viene tratteggiata come una riforma dell’agenda della politica, invitata ad uscire dalla sola dimensione istituzionale (quella che Pasolini chiamava efficacemente il Palazzo) e da una visione economicistica della riforma della società, e ad assumere i temi della questione femminile, di quella ecologica, di quella della pace –oggi diremmo di un’altra globalizzazione- come i temi fondativi di un “rinnovamento del PCI”. Chi fosse stato convinto di una sorta di superiorità morale congenita nel PCI non avrebbe indicato al suo partito –alla FGCI, alle donne, ai movimenti- come priorità della stagione che si apriva, quella del proprio rinnovamento.
Nel gruppo dirigente si aprì una dura battaglia politica. Giorgio Napolitano, in occasione del 17°anniversario della morte di Togliatti, a proposito della degenerazione dei partiti, sostiene che non basta “un’orgogliosa riaffermazione della diversità”. Lo scontro interno riguarda anche i rapporti con Craxi e con le questioni sociali.
L’invio in Sicilia di Pio La Torre nel 1981 fu uno dei segnali concreti di quanto e come Berlinguer concepisse la nuova fase. E l’assassinio di La Torre e di Rosario Di Salvo dimostra quanta paura facesse ai “poteri forti” interni e internazionali una linea tanto intransigente.
La FGCI di Fumagalli e quella poi diretta da me fanno dell’elaborazione de Il Contemporaneo il manifesto del proprio agire (“Riformare la politica per riformare la società”, titola il Congresso di rifondazione della FGCI tenutosi a Napoli all’inizio del 1985).
E se a Natta va riconosciuto il merito, morto Berlinguer, di aver provato a tener vivo il rinnovamento del partito , ci vorrà la forte iniziativa decisa da Occhetto–e contrastata all’interno- contro il consociativismo per far vivere quelle idee. Il contesto è cambiato. La degenerazione politica e morale del sistema è dilagante. E il PCI, con i governi di programma –e quindi in alleanza privilegiata con gli uomini di De Mita, di Misasi, di Mannino, di Nicolosi- si è adattato in molte parti del paese a convivere con quelle degenerazioni. Anche la lotta contro il consociativismo, come prima la questione morale, incontrano resistenze aperte e talvolta maggioritarie, in periferia e a Roma. Una rivista come Il Moderno a Milano o l’orientamento a non esagerare con la lotta alla mafia in Sicilia (“non possiamo fare l’analisi del sangue alle imprese”, affermò un importante deputato regionale del PCI dell’epoca) non furono solo episodi, ma parte di una concezione della politica del tutto in contrasto con quella che scaturiva dall’ultimo Berlinguer.
Si può dire, per concludere su questo punto, che il 92, Tangentopoli e Mafiopoli, la soggettività inaspettata di Mani Pulite o la rivolta della società civile siciliana dopo le stragi di quello stesso anno colmarono anche il vuoto, il ritardo, le esitazioni culturali e politiche della sinistra di opposizione. Penso che –se si fosse sviluppato pienamente il pensiero di Berlinguer sulla questione morale e se si fosse accentuato il rinnovamento e la ricerca di una diversità della sinistra– al fallimento delle vecchie classi dirigenti avrebbe fatto seguito non il decennio travagliato e incerto in cui siamo ancora immersi, ma un’alternativa democratica capace di restituire il diritto alla parola e alla politica a milioni di persone a cui clientele, debito pubblico e malaffare l’avevano sottratto.

4. Oggi siamo in presenza di una seconda questione morale. Se la prima fu segnata da un predominio dei partiti e delle loro correnti sull’economia e sulla società, questa è segnata al contrario da un predominio dell’economia e degli affari sulla politica. Il 92 segna questa cesura. Dopo il 92 l’impresa si fa politica. E, nei territori mafiosi, le stragi del 92 e del 93 segnano la fine dei vecchi compromessi e una diretta “discesa in campo” della mafia e della camorra nella politica. Impresa televisiva, impresa criminale, spietata logica degli affari, costituiscono l’impasto di un diffuso ceto di comando che prende le redini della cosa pubblica.
Queste sono le forme italiane e casereccie con cui si manifesta il ciclo del dominio liberista e economicista che ha dominato l’Occidente negli anni 90.
In qualche modo l’Italia berlusconiana è stata antesignana – più americanizzata, per alcuni versi, della stessa America- di una tendenza alla concentrazione dei poteri, ad un dominio economico e a una generalizzazione del conflitto di interesse –nella sua sostanza manifestazione estrema di un fondamentalismo del mercato, ai limiti di un vero e proprio totalitarismo capitalista senza precedenti-.
Gli anni del pensiero unico –meno stato e più mercato- sono stati gli anni del trionfo di un’idea gerarchizzata e iperleaderistica della politica.
Gli interessi personali e imprenditoriali della famiglia Bush, di Cheney, e di altri esponenti “neocons” nella guerra irakena sono fuori discussione. Questa tendenza accelera una crisi delle democrazie, che iniziano una mutazione genetica in plutocrazie e in videocrazie. La lotta al terrorismo viene rovesciata nel suo contrario, e cioè in una sistematica riduzione di libertà e di garanzie della persona. Si configura piano piano un nuovo autoritarismo mediatico e affaristico, che fa sentire il grande fratello come una realistica descrizione di una prospettiva a breve nell’ordine di cose possinili.
Forza Italia è il caso limite nell’intero Occidente di questa tendenza, perché è un partito senza radici e senza storia. Il caso Dell’Utri –sotto processo a Palermo per associazione a delinquere di stampo mafioso-, ispiratore e “padre nobile” del partito, ne è l’emblema.
La tv commerciale, nata nei favori e nelle protezioni del decennio precedente, motore di una rivoluzione di abitudini, consumi, costumi, ideologia, si fa potere e si fa politica.
Anche tutte le recenti inchieste giudiziarie ci dicono che non si ruba più per il partito o per la corrente, ma per sé, e così ci si compra il potere, la propria elezione e la politica. Al comando non giungono più i mediatori, ma gli avventurieri. La nuova questione morale è quindi pienamente parte del ciclo neoliberista e della sua crisi.
Solo così ci si spiega come sia possibile, per la prima volta dal 1945, una concentrazione tanto acuta di poteri e una tendenza strutturale –patologicamente accentuata in Italia- a superare la loro separazione costituzionalmente garantita. La controriforma costituzionale della Casa delle libertà rappresenta una sorta di manifesto della nuova questione morale.
Mi ha fatto una certa impressione sentire Casini, di cui tante volte apprezziamo l’equilibrio istituzionale –dopoché nel centrosinistra si era teorizzata l’arcaicità della questione morale- riproporci l’attualità di questa categoria. Oggi con più forza dovremmo domandare a lui, e al modernissimo Follini, che c’entrino con questa centralità, Cuffaro, Borzacchielli, Miceli, Lo Giudice in Sicilia e gli esponenti dell’UDC pugliesi, calabresi e di altre regioni coinvolti in recenti inchieste che spalancano spaventose realtà di degrado politico e morale.

5. Nel 2004, ben più di vent’anni fa, dire questione morale vuol dire questione democratica. E si esce da questa malattia solo uscendo dal pensiero unico e osando finalmente rinnovare la politica e i suoi soggetti fin dalle loro fondamenta.
Sì: diciamolo chiaro. La risposta democratica a questa tendenza è anemica e devitaminizzata. I partiti oggi –malgrado le grandi risorse popolari che ci sono in una forza come i DS- sono deboli e, spesso, culturalmente inconsistenti. La loro dinamica e la loro agenda è dettata dalle consultazioni elettorali e dai destini personali delle loro leadership impegnate a riconfermarsi o rafforzarsi nelle proprie funzioni. I partiti, anche quelli della sinistra, sono schiacciati nella loro dimensione istituzionale. Cresce la tendenza a un tesseramento che si gonfia coi congressi. Crescono episodi e fenomeni di degenerazione. La transumanza nei consigli comunali da un gruppo all’altro e da uno schieramento all’altro, il trasformismo politico come regola dell’agire sono ovunque all’ordine del giorno. Solo qualche settimana fa è stato salutato l’approdo di Cirino Pomicino nel centrosinistra, seppur in una sua componente marginale.
Sul terreno della lotta alla mafia –le ultime vicende giudiziarie siciliane lo dimostrano, quando, al di là di responsabilità penali, un esponente di primo piano dei DS in Sicilia colloquia con un boss mafioso, e il sindaco di Canicattì, eletto come indipendente di sinistra, viene arrestato per 416 bis- la caduta di tensione morale e politica è evidente e clamorosa, ventidue anni dopo l’assassinio di Pio La Torre. Esiste una questione morale che riguarda anche il centrosinistra. Se essa non verrà individuata e sradicata, corroderà alle radici la coalizione e la sinistra.
Al di là di questi fenomeni, i partiti si riducono spesso ad essere macchine istituzionali che fabbricano convegni che convocano altri convegni. Gli iscritti sono una “massa”, non degli individui dotati di un preciso statuto e di poteri effettivi. E con fastidio si guarda e si interloquisce coi movimenti, spesso trattati dall’alto in basso, con boria e puzza sotto il naso. La cultura dell’ascolto, della circolarità, le pratiche patrizie e di contaminazione non hanno scalfito le torri di Babele della politica dei partiti.
La questione morale è quindi, in definitiva, lo sbarramento che trovano di fronte migliaia di cittadini e di giovani quando sentono il bisogno di trovare spazi e strumenti per contare, per discutere, per decidere.

6. Da qui nasce la convinzione che la questione morale e la questione democratica devono fondare una nuova stagione della sinistra e del centrosinistra. Si tratta, anzitutto, di ricostruire una barriera, un discrimine, un orizzonte morale: come coalizione oggi perché domani le istituzioni e la democrazia si poggino su basi nuove, più solide e più garantite, dopo i tragici anni della transizione e della deriva berlusconiana.
La politica deve conquistare nuovi spazi nei territori espugnati dal mercato e dall’interesse privato, ma non lo può fare con le armi spuntate dei vecchi partiti. Lo deve fare con nuovi partiti (partiti-progetto/ideale/valore; e partiti-partecipazione/associazione/rete) e nuove forme della rappresentanza, nuove soggettività della società civile organizzata, un nuovo rapporto con gli interessi sociali e del lavoro.
Il cuore di questa svolta è il proposito manifesto di allargare ed estendere la democrazia in tutti i campi e di promuovere una partecipazione che decida.
Il tratto unificante dei movimenti –da Porto Alegre a Genova, dal 23 marzo ai girotondi, dal 15 febbraio al 20 marzo- è una critica democratica alla gerarchizzazione della delega, al leaderismo, al decisionismo (da quello del G.8 al sistema politico locale), è la democrazia partecipativa. Intendiamoci: non si tratta di nutrire alcuna illusione assembleare, e di contrapporre democrazia partecipativa –quasi una sorta di soviet rinnovati- a democrazia rappresentativa. Ma si tratta di comprendere che non basta la dimensione istituzionale e rappresentativa, e che l’autismo della rappresentanza finisce con il travolgere la credibilità stessa delle istituzioni rappresentative.
Questione morale è, anzitutto, difesa strenua e attaccamento ai valori della verità e della legalità. Dire bugie, quando si hanno responsabilità pubbliche o occultare verità (dai fatti di Genova del luglio 2001 alle ragioni della guerra in Irak) va finalmente considerato, anche in Italia, come una delle colpe e delle responsabilità moralmente più gravi e inaccettabili.
Dobbiamo andare oltre. Pensare a un nuovo modello democratico. Per questo vorrei conclusivamente proporre quattro punti di una nuova idea della politica.
Il primo, fare della partecipazione una scelta nuova per le amministrazioni di governo (bilancio partecipativo, con una quota crescente di bilancio affidata a procedure partecipative), per le coalizioni (primarie sul programma e sulle candidature), per i partiti (legge per lo sviluppo della vita democratica dei partiti, vincolando il finanziamento a nuove regole partecipative), per la rappresentanza sindacale (referendum tra i lavoratori sugli accordi e nuova legge sulla rappresentanza), per il volontariato.
Il secondo, riproporre la sfida del carattere autonomo e “terzo” delle istituzioni: dalla necessità di affermare, al di là del gioco bipolare, la netta separazione dei poteri a quella di affermare l’autonomia della pubblica amministrazione, abolendo lo spoil system, fino alla precisa individuazione di sistemi di controllo a monte, in gran parte smantellati o inesistenti.
Il terzo, affermare e difendere l’indipendenza della magistratura –in nome delle garanzie e delle libertà della persona e del diritto alla difesa e alla giustizia dei più deboli- e il principio di uguaglianza di fronte alla legge e proporre una legge abroga-leggi vergogna come primo atto del governo di centrosinistra.
Infine, il quarto e ultimo, rivedere le leggi elettorali. Non si tratta di passare dal maggioritario al proporzionale, ma di correggere e invertire l’estremo grado di personalizzazione della politica. Dobbiamo studiare ipotesi che la temperino –dal limite di due mandati anche per le cariche elettive nazionali, nello stesso collegio-, e affermare un sistema più mixato (sul modello della legge elettorale per le elezioni provinciali) con primarie obbligatorie nei partiti per scegliere i candidati.

7. Ma c’è un’ultima riflessione, più di fondo, da fare. Bisogna andare oltre l’idea novecentesca di partito. E’ intrinsecamente autoritaria e non partecipativa. In questi anni nei movimenti e nella rete internet sono nate soggettività plurali, anche confuse, ma ricche e feconde. Una nuova soggettività politica deve uscire dal modello militare e gerarchico del passato, e acquisire e praticare le idee della rete e le esperienze della rete. Il PT brasiliano, nato in un contesto particolare, è una federazione di associazioni, di gruppi e di correnti. E’ u7n’esperienza che dice che si può essere forti e radicati culturalmente e idealmente, e aperti, accessibili, umili e orizzontali sul piano dell’organizzazione. Da noi una minoranza di partito vitale e orgogliosa è considerata una sponda sciagurata agli estremisti. L’esperienza di Aprile tra sindacato, pacifismo e girotondi, prima e ancor più dopo la scelta di Cofferati di candidarsi a Bologna, è un primo parziale segno che va in questa direzione.
Il futuro della sinistra, la sua autonomia, e il futuro del grande ulivo dipenderanno dal non essere mere alleanze tra partiti, ma sistemi comunitari, fondati su valori e ideali condivisi, di partecipazione. Potenze della società civile.

7. La scelta del “noi”, da cui mosse l’esperienza prima del Congresso di Pesaro della mozione “per tornare a vincere”, è quindi strategica. “Il potere non mi cambierà” dichiara Zapatero appena eletto che, non a caso, suggendo a logiche di partito, nomina otto ministre su sedici membri del governo. Occorre praticare la circolarità delle decisioni e immaginare partiti rinnovati –o soggettività politiche più aperte e orizzontali- svincolati dal quasi esclusivo compito della riproduzione, per cooptazione e per fedeltà ai leaders, della rappresentanza istituzionale. Questa selezione deve sempre avvenire votando, in modo aperto e democratico, con garanzie per tutte le posizioni, con le primarie. L’agenda di questi soggetti e della politica va così riorientata sui temi grandi e piccoli del vivere comune.
E forse dobbiamo riprendere lo stile, il passo, il profilo della lezione antileaderistica di Enrico Berlinguer. So che lui era molto più leader di tanti ammalati di leaderismo. Ma la sinistra e il centrosinistra –penso ad alcuni tratti non convincenti dell’assemblea del Palalottomatica della lista del triciclo- devono liberarsi dal complesso di Berlusconi. Prodi, né nessun altro, sarà mai il nostro Belrusconi. Quel modello, che ormai si allontana dal sentire del Paese e che rimane vittima del suo potere comunicativo, contiene in sé un’idea intrinsecamente antidemocratica (ha copiato dai sovietici, ci ha intelligentemente detto Oliviero Toscani a proposito di Berlusconi e dei suoi cartelloni pubblicitari). Al governo devono stare i valori, il modo di vivere e di sentire e, perché no, tanta gente nuova, estranea all’attuale circo mediatrico-politico, che rappresenta il lavoro, le professioni, i giovani, le donne, la vita di ogni giorno.
Il nostro antileaderismo dev’essere una scelta sincera e generosa. Per fare questo occorre un nuovo rapporto tra etica e politica. Tra valori e riforme. Tra radicalità e concretezza. Tra indignazione e azione. Occorre un nuovo orizzonte. Dobbiamo saper promuovere una nuova religione civile. La sinistra, come ci ha detto dopo la recente sconfitta greca Theo Anghelopoulos, deve trovare parole calde, vere, emozionanti che diano senso a un’impresa di pace, di umanità, di giustizia.
Parafrasando uno slogan fortunato in questi anni, dobbiamo dire e dimostrare che una politica diversa è possibile.

Pietro Folena. Genova, 3 aprile 2004.