

Un programma fondamentale
Scritto da: Pietro Folena in EuropeiGlobali, Politica nazionaleDi seguito la mia relazione al seminario di ieri presso la Direzione del Pd, promosso dal Laboratorio Politico per la Sinistra, da Lavoro e Welfare, da Politica e Società, dai Cristiano Sociali e dalla Fondazione Bruno Buozzi
Con il ballottaggio a Roma e in tutte le altre città non solo si è giocato il destino di comunità territoriali, ma si è verificata la vitalità di un’idea di centrosinistra, in un quadro bipolare, che ha profondamente segnato l’Italia, non solo negli ultimi vent’anni, e che oggi si misura col governo “strano” col centrodestra.
Avviamo oggi una discussione che coinvolge associazioni espressioni di un pluralismo di idee. Già questa è una buona notizia, in un periodo in cui la frammentazione correntizia e micro-correntizia è divenuta patologica. La presentazione di un ordine del giorno all’ultima Direzione, sottoscritto da esponenti di aree diverse, che proponeva prima della scelta del segretario una Costituente delle idee, è un fatto importante. Non abbiamo una visione negativa di una forza plurale, in cui si organizzano tendenze e correnti di pensiero, in forme democratiche e trasparenti. Chi promuove questa discussione, e propone che nei prossimi giorni la proseguiamo in forma pubblica -l’idea è il 21 giugno-, ha sostenuto candidati diversi all’ultimo Congresso e fatto parte di aree differenti, oppure -come chi parla- solo più recentemente si è avvicinato al Partito Democratico, o ancora come tanta sinistra diffusa che, senza essere entrata nel Pd,ma avendolo votato, vorrebbe ora contribuire in prima persona a un corso nuovo.
Vogliamo verificare se esistano le condizioni perché, attorno alle idee di una rottura col paradigma neo-liberista che ha dominato negli ultimi vent’anni, condizionando e talvolta plasmando l’azione delle forze progressiste, e a quelle della centralità del lavoro, di idealità socialiste, ambientaliste e dei beni comuni, di ispirazione cristiano sociale, si possa pensare a un “programma fondamentale” del Partito Democratico, che ne ridefinisca natura, missione, forma organizzata.
Un programma fondamentale e due no
Il riferimento al Congresso rifondativo della SPD a Bad Godesberg non è casuale. Allora la socialdemocrazia tedesca abbandonava dogmi marxisti, ed elaborava una strategia riformistica che la avrebbe portato a grandi successi. Oggi l’operazione che va fatta è rovescia, e non riguarda solo il PD, ma anche le forze politiche progressiste che hanno contribuito alla sua fondazione. Si tratta di abbandonare i dogmi neo-liberisti e la religione del Mercato Assoluto, non per tornare a vecchi orizzonti novecenteschi, ma per immaginare quello che alcuni di noi hanno chiamato un “neo-riformismo”, distinto e distante dal riformismo dell’età neo-liberista. Il tema cruciale che ora si apre è quello del Partito, di cosa sia, nell’era digitale, un grande partito popolare di sinistra nella società.
Il tema oggi è quindi quello del “programma fondamentale” del PD, a partire dalla nostra aggettivazione, democratico, e dal suo contenuto semantico, dalla potenzialità inespressa, in tutti i i campi, di un’idea pienamente democratica, di socializzazione del kratos e della politica.
Tutto è cominciato da quello che abbiamo sentito come un epilogo. Il dopo-elezioni, seguito a un esito negativo e inaspettato per noi, con le vicende culminate nelle ore dell’ elezione del Presidente della Repubblica e con la formazione del Governo “strano”, è la conclusione di una storia. Vogliamo vivere questo passaggio non come una sconfitta irreversibile, che magari annuncia nuovi scenari politici, ma come un nuovo inizio, come un prologo.
Vogliamo offrire, prima ancora che parta la macchina congressuale del PD, e il confronto su chi comanda, degli spunti sul che fare, e perché democratici a migliaia di militanti che si interrogano sul senso stesso dello stare nel Partito Democratico, in queste settimane difficili, perfino drammatiche. Non facciamo solo un atto di fede -nei valori costitutivi del PD- , ma decidiamo di essere protagonisti, insieme a tante e a tanti, della costruzione nel prossimo Congresso, in forma democratica e partecipata, di un punto di vista neo-riformista, del lavoro, socialista, ecologista, solidale che proponga al PD un’identità forte e riconoscibile.
Al fondo della sconfitta alle elezioni e di quella nel dopo-elezioni c’è stato tanto qualche difetto tattico: ma la sottovalutazione delle condizioni di vita della maggioranza delle persone, e del significato del risultato elettorale, che richiedeva da parte del Partito maggiore consapevolezza autocritica e un’iniziativa più radicale e più innovativa.
Appariamo, anche dopo l’elezione del nuovo segretario, con la formazione qualche giorno fa degli organismi, come una litigiosa confederazione di capi corrente, se non di veri e propri partiti nel partito, che rispondono solo ad una loro disciplina interna. Si pone una vera e propria questione morale, nel Pd, causata dal metodo scarsamente democratico con cui si assumono le decisioni politiche, e da una concezione della lotta politica interna fratricida e inaccettabile.
Al fondo il tema è quello dell’identità debole del Partito, che determina nei suoi gruppi dirigenti e nella sua rappresentanza uno scarso senso di appartenenza e di orgoglio di parte; e di una forma-partito che assomiglia più a quella dei partiti notabilari dell’Italia liberale e pre-fascista, scarsamente capaci di rappresentare la società, le classi sociali, le persone, i territori, che non a quella dei partiti democratici a cui, a partire da quello americano, il PD alle origini si è ispirato.
Un corso nuovo può scaturire solo dalla rottura in radice dell’attuale natura elettoralistica e leaderistica del Partito, che trasforma militanti, volontari e elettori in tifosi o consumatori di personalità, da esaltare e poi da abbattere.
Vogliamo rompere questa gabbia.
Se la prima fase del PD ha visto coltivare l’illusione dell’autosufficienza maggioritaria, e se nella seconda –quella ora giunta a conclusione- si è giocata una partita per il governo con un lento avvicinamento al campo socialdemocratico europeo, senza tuttavia mettere mano al Partito, noi ci proponiamo di contribuire ad aprire una terza fase nella vita del PD, che abbia l’obiettivo di costruire una nuova presenza politica di una comunità coesa e solidale nella società italiana, di scommettere sul campo europeo come centro della nostra azione, e di fondare su queste due basi e ragioni di un’alternativa progressista in Italia.
Per mettere da subito i piedi nel piatto, senza reticenze, vogliamo dire due no a scelte che se compiute farebbero transitare il Partito Democratico in una collocazione centrista e neo-moderata, subalterna alle politiche di finanziarizzazione dell’economia e della socità. Il primo no è al presidenzialismo: non è un no ideologico -in altri paesi funziona, ha una storia, ha un senso-; non è un no tattico -favorirebbe Silvio Berlusconi, effetto tutto da dimostrare. E’ un no rispetto alle condizioni dell’Italia, e all’analisi sugli errori della Seconda Repubblica, che ha imboccato una strada leaderistica e presidenzialista di fatto con gli effetti di evaporazione dei soggetti democratici autorganizzati, a partire dai partiti, che vediamo ora. La cancellazione del porcellum, deve aprire la strada ad un bipolarismo più democratico e rappresentativo della volontà degli elettori e della società italiana. Il secondo no è a una durata di legislatura di questo quadro politico, prospettata dal premier nei giorni scorsi. Occorrono tempi contenuti, con riforme certe, con un’agenda legata ai drammi sociali e del lavoro, dopo i quali aprire una nuova fase di competizione fra diverse idee di società, trasformando i partiti personali o notabilari di oggi, in comunità di idee e di valori condivisi.
Al centro, il lavoro e la vita
La Prima Repubblica era collassata in ragione dell’incapacità di rinnovarsi dei grandi partiti nati con la Costituzione –travolti dagli scandali, dai patti scellerati tra la mafia e alcuni settori del Potere-: tuttavia l’idea, coltivata prima di tutto a destra ma poi fatta propria dall’intero schieramento politico, che i partiti sono la loro leadership, che devono essere leggeri e non invadenti nella società, sostanzialmente organizzatori della rappresentanza istituzionale, vent’anni dopo ci consegna, accanto a un proliferare di scandali e di degenerazione morale, una società senza voce, senza rappresentanza, in cui, da quando la grande crisi, dal 2008 in avanti, si è fatta strada, il disincanto si trasforma in rabbia, in odio, in risentimento. Qualche anno fa si cominciò a parlare degli “invisibili”, riferendosi alle nuove forme di precariato e di assenza di garanzie sociali; qualche anno dopo ci si riferì a quella grande parte del lavoro salariato che non aveva peso, né faceva notizia. Oggi gli effetti della crisi, fino ai quotidiani gesti di disperazione, portano il lavoro, le aziende, i problemi materiali a una nuova visibilità. Ma le forze politiche, a partire dalla nostra –che non può non avere il lavoro e la vita delle persone al centro, e non fare del riscatto degli ultimi e degli sfruttati una ragione di esistenza-, sono rimaste largamente scollate, e lontane da questi problemi. Si è creata un’insopportabile asimmetria tra la forza della finanza e della speculazione, e quella del lavoro. ”Oggi -ha detto J.K.Galbraith con cui abbiamo discusso qualche giorno fa- il segno del moderno capitalismo americano non è né la benefica concorrenza né la lotta di classe, né un’onnicomprensiva utopia del ceto medio. È la predazione invece ad essere diventata la caratteristica dominante, un sistema cioè nel quale i ricchi banchettano a spese del sistema, in decadenza, costruito per il ceto medio. La classe di predatori non è costituita dalla totalità dei ricchi: può anche essere osteggiata da molte persone di ricchezza equiparabile. Essa è tuttavia la forza egemone, quella che definisce le caratteristiche. I suoi attori controllano completamente lo stato nel quale viviamo. »
Non esistono ricette del passato. Esiste solo la capacità di organizzare la conoscenza della società, delle condizioni di vita dei lavoratori, delle famiglie, dei giovani: di essere strumento attivo per l’anagrafe dei problemi materiali, e la ricerca e l’indicazioni delle soluzioni concrete da perseguire, e di quelli sentimentali, immateriali, che attengono alle corde –alle paure e alle speranze- delle persone. E’ possibile trovare un denominatore comune tra la presenza operaia, sempre meno tradizionale sul piano professionale e ancora rilevante in paesi manifatturieri come il nostro, e l’esercito in continuo aumento dei lavoratori della conoscenza che chiedono una riscrittura delle condizioni della qualità del lavoro. Resta questa la strada maestra per rinnovare il codice genetico della sinistra, ma richiamandosi nel contempo ai principi originari da cui essa è scaturita e al filo rosso lungo il quale si è sviluppata.
In questo senso, prima di tutto, bisogna ripartire dalla vita.
Si è scritto e parlato della necessità di una biopolitica, in questi anni. L’obiettivo è aprire una stagione per valorizzare il lavoro: in termini monetari, dopo anni di svalorizzazione, e in termini morali, perché torni al centro, e l’uomo e la donna sentano, attraverso la cultura, i sistemi di istruzione, la ricerca, realistico l’obiettivo di una liberazione del lavoro. Non si tratta di sostituirsi al sindacato –il quale è chiamato ad una profonda riflessione sulla propria capacità di rappresentanza sociale e di organizzazione in forme democratiche delle rivendicazioni e dei conflitti-. Ma essere partito del lavoro, dei lavori, vuol dire essere forza che si fa carico di una visione compiuta della vita delle persone: dalle politiche dei servizi per i bambini, volte a permettere un nuovo compromesso tra le esigenze di cura e il bisogno di nuovi spazi per l’affermazione professionale delle donne, alla riduzione della intollerabile pressione sui redditi medio-bassi del prelievo fiscale, in tutte le sue forme, che blocca i consumi e impoverisce la società.
Ripartire dalla vita, vuol dire poi farsi carico delle conseguenze devastanti per il clima e per l’ambiente delle politiche di sviluppo, e di quelle energetiche perseguite in questi anni. Uno sviluppo sostenibile, che muova dalla riconversione ecologica dell’economia, è una necessità per garantire la vita sul pianeta, e per accrescere la qualità dell’esistenza, soprattutto nelle realtà più urbanizzate. Un partito che mette al centro la vita promuove ogni giorno azioni concrete –di governo, a tutti i livelli-, autorganizzate dalla società e nei comportamenti diffusi di tutte le persone.
E vita vuol dire infine essere il partito dei generi, delle donne e degli uomini, e di tutte le fasi della vita, di un nuovo patto fra le generazioni, fondato sulla capacità di offrire opportunità vere ai più giovani, e di aprire una nuova mobilità sociale rispetto alle caste e alle corporazioni, e di riconoscere ai più vecchi un ruolo sociale di saggezza e di conoscenza a disposizione degli altri, e della collettività.
Per l’Europa sociale.
La domanda ricorrente –durante l’esperienza del Governo Monti, che si è via via avvitata su sé stessa, fino a perdere ogni rapporto col Paese, e ora con la nuova fase politica- è con quali risorse si possa fronteggiare la rottura sociale determinata dal liberismo, dalle politiche di austerità e da rientro dal debito imposte da Bruxelles. Come ricordava in questi giorni Bruno Amoroso, nel 900 le politiche di austerità e di rientro dal debito imposte dai paesi vincitori ai vinti hanno scatenato il virus del populismo e del fascismo, e poi una nuova guerra.
Il tema che anche il Governo Letta deve affrontare non è l’alternativa fra l’Europa a guida tedesca, così com’è oggi, e la rottura della costruzione unitaria. Ma è un’iniziativa che dia all’Italia la leadership di un’Europa del Sud, capace, con la Francia di Hollande, di spingere la Germania a un nuovo compromesso, anche nel suo interesse. Su questo punto occorre essere netti e coraggiosi. Non c’è prospettiva di Stato Sociale, e di politiche di welfare, se non in una chiave europea. Ed è vero anche il contrario: l’intera costruzione europea –la moneta unica, e non solo, fino alle speranze dei padri fondatori- si frantumerà in tempi anche rapidi se non si costruirà (con nuovi vincoli, non più finanziari ma sociali) l’Europa sociale e del lavoro. I due pilastri devono essere la liberazione di risorse per la crescita (infrastrutture, sviluppo sostenibile, industria della cultura) e l’armonizzazione di nuovi sistemi universalistici di protezione, almeno a partire dai paesi europei che hanno una storia e una tradizione sociale comune.
In questa svolta, un vero e proprio New Deal europeo, in una crisi grave come quella del 29, vanno chiamati i produttori –proprio nel senso che a questo termine dava Bruno Trentin- a un nuovo patto, contro la rendita e la speculazione, volto ad affermare nuove regole certe, a partire dalla netta divisione tra banche d’affari e servizio del risparmio, nell’economia, sulla strada timidamente aperta dall’avvio della Tobin Tax. Questo patto –una sorta di nuovo compromesso tra capitale produttivo e lavoro- accanto ai risvolti economici e sociali (fino alla difesa di prestazioni universalistiche nella salute, nell’assistenza, nella previdenza, e alla capacità di immaginare come in una fase di transizione la forza-lavoro in mobilità non venga espulsa ma partecipi, insieme ai giovani in cerca di prima occupazione, a grandi programmi pubblici di natura ambientale e culturale), dovrà tradursi anche in una rinnovata coesione democratica e civile. Senza corpi intermedi –sindacati dei lavoratori e delle imprese, associazioni studentesche, professionali e tematiche, terzo settore-, rinnovati profondamente nella loro capacità di rappresentanza democratica, non c’è possibilità di costruire nuova coesione sociale.
La libertà solidale
Nel ventennio della Seconda Repubblica, è sembrato che la libertà trovasse casa a destra, sotto l’ombrello liberista, e che la sinistra fosse sinonimo di statalismo. Con questo complesso, gran parte della sinistra ha cercato di uscire dalla propria tradizione, o sposando prodotti dell’ideologia liberista (come nel caso delle privatizzazioni dell’acqua e di grandi servizi pubblici) o immaginando un’improbabile terza via, che ha portato alle conseguenze note.
E tuttavia la risposta che si è data a questa tendenza non è sufficiente, e rimane dentro un orizzonte statalista. La teoria dei beni comuni, e di un’idea di pubblico che non è statale, indica una strada stimolante, da approfondire. Così come, per ciò che riguarda lo Stato unitario –come il Presidente della Repubblica ha avuto modo di ricordare-, la strada è quella federalista indicata da Carlo Cattaneo, e che fu accantonata dalla visione statalista di Cavour e dei piemontesi. Sempre più l’Italia, nell’Europa e nella globalizzazione, si deve pensare come potenza delle idee –direi anche spirituale, tanto più con l’elezione di Papa Francesco-, con istituzioni più leggere, dentro il contesto europeo.
Il tema della libertà, riproposto oggi nella rete, luogo di scambio di informazioni e di condivisione di conoscenze e di progetti comuni, nella crisi, copi suoi effetti, incontra il tema dell’altro. Della libertà altrui, senza la quale non sei libero. Della libertà solidale. Qui c’è la ragione di una rinnovata attualità delle idee libertarie e mutualistiche del socialismo, distinte e distanti dalle idee e dalle pratiche del socialismo statalista, nelle sue diverse versioni e degenerazioni. Del resto anche il programma di Bad Godesberg, a proposito di una rappresentazione caricaturale della relazione tra sinistra e cristianesimo, è chiaro:“Il socialismo democratico, che in Europa affonda le sue radici nell’etica cristiana e nell’umanesimo, non ha la pretesa di annunciare verità assolute, non per indifferenza riguardo alle diverse concezioni della vita o verità religiose, bensì per rispetto delle scelte dell’individuo in materia di fede, scelte sul cui contenuto non devono arrogarsi il diritto di decidere né un partito politico né lo Stato.”
Essere il partito della libertà solidale, vuol dire rimuovere gli ostacoli materiali e immateriali, che impediscono la libertà. A partire dalla libertà delle donne, vittime della violenza e dei soprusi, di un’organizzazione sociale e di modelli prevalenti di vita che non permettono pari opportunità.
Più in generale le libertà civili, in tutti i campi, e per tutti sono una frontiera costitutiva del nuovo PD.
La nostra patria
Il Partito Democratico, fin dai colori del suo simbolo, è un partito nato per unire e riscattare la nazione. E’ il solo Partito, malgrado gli errori commessi, che possa porsi l’obiettivo di costruire una nuova speranza condivisa, una sorta di religione civile italiana: che, muovendo dalla Resistenza e dalla Costituzione, mobiliti le coscienze e organizzi le forze perché l’Italia si scrolli di dosso il pessimismo, il fatalismo, l’egoismo di questi anni. Ciò che si è perso, nella dialettica delle settimane passate, è proprio questo senso, e la sua consapevolezza.
La nostra patria ha un senso se sarà alla testa della costruzione di una comune patria europea. Le elezioni europee del 2014, in cui il PSE si presenterà con un candidato premier, sono forse una delle ultime occasioni per invertire la tendenza che ha prevalso, soprattutto nell’ultimo decennio. Non abbiamo altri campi di gioco se non questo. Le difficoltà dei socialisti francesi, nella loro esperienza di governo, e quelle della SPD in Germania, a qualche mese dalle elezioni, come la non-vittoria del PD in Italia, dicono un’altra volta che dentro i confini nazionali né la sinistra, né un’idea di Europa vera hanno possibilità di affermazione. Il tema di una fase costituente europea, dando al PE nuovi poteri, o dotandosi di uno strumento ad hoc, non può andare a dopo il 2014.
L’Italia di Cesare Beccaria, che si è battuta nel mondo contro la pena di morte, è l’interlocutore decisivo per i paesi arabi impegnati in una transizione difficilissima, e la prospettiva euro mediterranea ne è la cornice. Da Obama a Papa Francesco, dal confronto coi paesi del BRIC al nuovo dinamismo africano, il Partito Democratico deve scoprire una vocazione internazionalista e universalista, che si propone –per dirla con Enrico Berlinguer- il problema di un nuovo governo democratico del mondo.
Il Partito sociale
Il tema è quindi quello del partito, della sua identità, della sua funzione e della sua organizzazione. Se alla base della giovane vita del PD c’è stato un patto costitutivo, non scritto, tra correnti e capi-corrente dell’ex-Margherita e dell’ex-DS, esploso definitivamente in questi mesi, oggi si tratta di liberare il partito da questo blocco. E in tutta franchezza non sembra che operazioni generazionali, prive di contenuti, siano da sole in grado efficacemente di liberare il partito.
La riforma del PD, il suo rinnovamento profondo, la sua rigenerazione morale possono venire solo se si compie una rottura concettuale, direi epistemologica, nell’idea di Partito. L’esperienza di questi anni insegna infatti che la politica democratica non può fare a meno di partiti forti e strutturati; che la forte personalizzazione della leadership, senza un robusto tessuto democratico costituito da partiti, sindacati, associazioni, può degenerare nel populismo. Nella relazione di Fabrizio Barca ci sono spunti e idee interessanti su questi aspetti.
L’opzione di fondo è quella per un partito sociale: che organizza interessi, o li ascolta, li compenetra, trova forme anche flessibili, tipiche della rete, per attraversare la società, e per ascoltarla, e si propone di produrre cultura e idee, di farlo in modo aperto e partecipativo, studiando il proprio ambito (territoriale o sociale), e creando comunità. Del resto, come il caso dei seguaci dell’Unità sui network sociali dimostra, o come ancora dimostrano i soci delle Coop, o i più recenti gruppi di acquisto solidale e affini, già esistono comunità sociali, di idealità socialiste e mutualiste, che vanno raccordate fra di loro.
La struttura del partito e la formazione di chi lo dirige dev’essere indirizzata al mutualismo, ai servizi aut organizzati, alla promozione di cultura e di educazione permanente. Immaginiamo un programma che, riprendendo la tradizione antica delle Case del Popolo e del Mutuo Soccorso, promuova l’apertura di Case della Democrazia, come luoghi di una comunità allargata.
Questo impone una natura tendenzialmente federativa e federalista del partito. Federativa, nel senso di aprire una stagione di organizzazione sociale della politica, per categorie, professioni, interessi, in modo libero e aperto. Federalista, nel senso di demandare quote importanti di sovranità ai territori, compensate da poteri sostitutivi regolati.
Siamo passati dalle primarie come giusta scelta democratica per le candidature alla guida del governo, a una patologia “primaristica”, in cui tutti ad ogni livello ci si candida per ogni carica, fino a quelle più interne di partito, esaltando l’individuo e la persona e demolendo piano piano l’idea di una comunità. E la coincidenza, scritta addirittura nello statuto, tra leadership di partito e leadership di governo -estranea al modello USA e a qualsiasi modello europeo- ha svuotato il Partito di ogni funzione autonoma e distinta dalle istituzioni.
La condizione per una riconversione di questa natura è la fine dell’identità tra segretario del partito e candidato premier. Si debbono creare due circuiti politici distinti: quello della rappresentanza, regolato dalle primarie e da una dialettica col partito; e quello del partito. I gruppi parlamentari e il partito dovrebbero reciprocamente avere più autonomia.
Anche in queste ore, il circo mediatico, e il riflesso condizionato di tanti dirigenti, la cui notorietà da quel circo dipende, porta a cercare il nuovo leader o la nuova personalità cui affidare i destini del PD e dei progressisti. Non si smette di errare. Non esiste un Mosè che ci condurrà attraverso il deserto alla Terra Promessa. Non ci sono scorciatoie. Vogliamo tuttavia aggiungere, concludendo, che un’idea ancillare della sinistra, a fronte di un nuovo dualismo -poco importa se conflittuale o pacificato nella torre- tra due esponenti espressione nel PD di una visione moderata, Enrico Letta e Matteo Renzi, la respingiamo con nettezza. Vogliamo affermare un PD come moderna forza di una sinistra popolare -il PD come partito di popolo, citando Bad Godesberg-, che fa dell’autonomia delle forze del lavoro dal potere finanziario una questione grandissima di identità e di profilo, che richiede una guida moderna e innovativa di sinistra.
Di quest’autonomia della sinistra facciamo una bandiera.