

Un epilogo che diventa un prologo
Scritto da: Pietro Folena in EuropeiGlobali, Politica nazionaleUn epilogo che diventa un prologo.
Tutto comincia da un epilogo. Quello che si è consumato la settimana scorsa in Parlamento, nelle ore delle elezioni del Presidente della Repubblica, è per molti versi un epilogo, la conclusione di una storia. Noi qui vogliamo vivere quell’epilogo come un prologo o, per dirla con espressione che non ebbe fortuna, come un nuovo inizio.
“La fine è il mio inizio”, racconta con saggezza Tiziano Terzani al figlio Folco.
In queste ore difficili, perfino drammatiche, in cui migliaia di militanti si interrogano sul senso stesso dello stare nel Partito Democratico, quando si va incontro ad una speriamo breve stagione (e limitata negli obiettivi) di “governo del presidente” compiamo non solo un atto di fede -nei valori costitutivi del PD- , ma decidiamo di essere protagonisti, insieme a tante e a tanti, della costruzione nel prossimo Congresso, in forma democratica e partecipata, di un punto di vista socialista, ecologista, solidale che proponga al PD un’identità forte e riconoscibile: una vera e propria “Costituente delle idee”, aperta senza pregiudizi a tutti. Il tema cruciale che ora si apre è quello del Partito: di cosa sia, nell’era digitale, un grande partito popolare di sinistra nella società.
La crisi del Partito Democratico, che approfondisce la crisi istituzionale e politica, e il solco con una parte crescente della società, è stata provocata da gravi errori di conduzione da parte del gruppo dirigente. Al fondo c’è stato non solo qualche difetto tattico: ma anche, e soprattutto, una sottovalutazione diffusa delle condizioni di vita della maggioranza delle persone, e del significato del risultato elettorale, che richiedeva maggiore consapevolezza autocritica e un’iniziativa più radicale e più innovativa.
Il PD è arrivato ad appuntamenti capitali, fino a quello dell’elezione del Presidente, come una litigiosa confederazione di capi corrente, se non di veri e propri partiti nel partito, che rispondono solo ad una loro disciplina interna, al loro feudatario di riferimento: tutto ciò è esploso nel voto dell’aula, umiliando il prestigio e la credibilità di una grande forza politica popolare nella quale credono milioni di elettori, a partire dal mondo del lavoro, e centinaia di migliaia di militanti.
Si pone una vera e propria questione morale, nel PD, scatenata ora dal metodo scarsamente democratico con cui si assumono le decisioni politiche, e da una concezione della lotta politica interna fratricida e inaccettabile, ma la cui ragione più profonda sta nel leaderismo, nell’elettoralismo e nel carrierismo, come fondamenti dell’agire politico.
Basta. La base del Pd, tutti gli elettori democratici e progressisti dicono basta.
L’elezione di Giorgio Napolitano, con tutte le conseguenze che si trascina, ha frenato una disgregazione e un disfacimento in atto. A Napolitano è stato di fatto affidato il compito di sostituirsi alla crisi del PD.
Ma al fondo il tema che va affrontato è quello dell’identità debole del Partito, che determina nei suoi gruppi dirigenti e nella sua rappresentanza uno scarso senso di appartenenza e di orgoglio di parte; e di una forma-partito che assomiglia più a quella dei partiti notabilari dell’Italia liberale e pre-fascista (scarsamente capaci di rappresentare la società, le classi sociali, le persone, i territori), che non a quella dei partiti democratici a cui, a partire da quello americano, il PD alle origini ha detto di volersi ispirare.
Il richiamo di Pierluigi Bersani al fatto che senza un ordine non esiste un partito, non può portare a pensare che allora basti un mero richiamo d’ordine -proprio nei giorni in cui si decide di proseguire “obtorto collo” con una collaborazione larga di governo, com’è stato col Governo Monti-: l’ordine (anzi suggerirei, un ordine nuovo) può scaturire solo dalla rottura in radice dell’attuale natura elettoralistica e leaderistica del Partito, che trasforma militanti, volontari e elettori in tifosi o consumatori di personalità, da esaltare e poi da abbattere, o più mestamente in numeri dei pacchetti delle tessere di questo o di quel notabile.
Anche in queste ore, il circo mediatico, e il riflesso condizionato di tanti dirigenti, la cui notorietà da quel circo dipende, porta a cercare come l’Araba Fenice il nuovo leader o la nuova personalità cui affidare i destini del PD e dei progressisti. Non si smette di errare. Non esiste un Mosè che ci condurrà, attraverso il deserto, alla Terra Promessa. Non ci sono scorciatoie.
Siamo passati dalle primarie come giusta scelta democratica per le candidature alla guida del governo, a una patologia “primaristica”, in cui tutti ad ogni livello ci si candida per ogni carica, fino a quelle più interne di partito, esaltando l’individuo e demolendo piano piano l’idea di una comunità e di valori condivisi. E la coincidenza, scritta addirittura nello statuto, tra leadership di partito e leadership di governo -estranea al modello USA e a qualsiasi modello europeo- ha svuotato il Partito di ogni funzione autonoma e distinta dalle istituzioni.
Vogliamo rompere questa gabbia.
Vogliamo farlo proprio nel momento in cui una parte larga della dirigenza del PD vivrà la fase politica che si apre come uno spostamento moderato del Partito, volto a liberarsi dalle “pericolose incrostazioni di sinistra”: noi invece, proprio ora, vogliamo dare alle grandi tradizioni socialiste -che vengono dal PCI-PDS-DS, dal PSI, dai cristiano sociali e dalla sinistra DC, dalle culture repubblicane e azioniste, dai verdi e dai movimenti di cittadinanza- una nuova voce, e una forza, per impedire uno slittamento centrista che snaturerebbe il PD, e per agganciare compiutamente, senza se e senza ma, il partito democratico al Partito del Socialismo Europeo, che sta allargando i suoi confini a nuove idee democratiche e progressiste.
Se la prima fase del PD ha visto coltivare l’illusione dell’autosufficienza maggioritaria, e se nella seconda –quella ora giunta a conclusione- si è giocata una partita per il governo con un troppo lento avvicinamento al campo socialista, senza tuttavia mettere mano al Partito, la cui costituzione materiale è degenarata, noi ci proponiamo di aprire una terza fase nella vita del PD, che abbia l’obiettivo di costruire una nuova presenza politica di una comunità coesa e solidale nella società italiana, di scommettere sul campo europeo come centro della nostra azione, e di fondare su queste due basi le ragioni di un’alternativa progressista in Italia che chiuda finalmente una transizione così estenuante.
Al centro della politica, la vita
L’affermazione del Movimento Cinque Stelle è l’ultima, più clamorosa, addirittura impetuosa manifestazione della gravissima crisi della politica. Se la Prima Repubblica era collassata in ragione dell’incapacità di rinnovarsi dei grandi partiti nati con la Costituzione –travolta dagli scandali, dai patti scellerati tra la mafia e alcuni settori del Potere-, tuttavia l’idea, coltivata prima di tutto a destra ma poi fatta propria dall’intero schieramento politico, che i partiti sono solo la loro leadership, che devono essere leggeri e non invadenti nella società, sostanzialmente organizzatori della rappresentanza istituzionale, vent’anni dopo ci consegna una società senza voce, senza rappresentanza, in cui, da quando la grande crisi, dal 2008 in avanti, si è fatta strada, il disincanto si trasforma in rabbia, in odio, in risentimento.
Qualche anno fa si cominciò a parlare degli “invisibili”, riferendosi a quella grande parte del lavoro salariato che non aveva peso, né faceva notizia. Oggi gli effetti della crisi, fino ai quotidiani gesti di disperazione, portano il lavoro, le aziende, i problemi materiali a una nuova visibilità. Ma le forze politiche, a partire dalla nostra –che nella sua storia e nella sua natura ha il lavoro al centro, e che fa del riscatto degli ultimi e degli sfruttati una ragione di esistenza-, sono rimaste largamente scollate, e lontane da questi problemi.
Si è creata un’insopportabile asimmetria tra la forza della finanza e della speculazione, e quella del lavoro. Il Partito, a parole, del lavoro è distratto, nei fatti, perché si occupa di liste e di assetti di potere.
Non esistono ricette del passato. Esiste solo la capacità di organizzare la conoscenza della società, delle condizioni di vita dei lavoratori, delle famiglie, dei giovani: di essere strumento attivo per l’anagrafe dei problemi materiali, e la ricerca e l’indicazione delle soluzioni concrete da perseguire, e di quelli sentimentali, immateriali, che attengono alle corde –alle paure e alle speranze- delle persone.
In questo senso, prima di tutto, bisogna ripartire dalla vita. L’obiettivo è aprire una stagione per valorizzare il lavoro: in termini monetari, dopo anni di svalorizzazione, e in termini morali, perché il lavoro torni al centro, e l’uomo e la donna sentano, attraverso la cultura, i sistemi di istruzione, la ricerca, realistico l’obiettivo di una liberazione del lavoro. Non si tratta di sostituirsi al sindacato –il quale è chiamato ad una profonda riflessione sulla propria capacità di rappresentanza sociale e di organizzazione in forme democratiche delle rivendicazioni e dei conflitti-. Ma essere partito del lavoro, dei lavori, vuol dire essere forza che si fa carico di una visione compiuta della vita delle persone: dalle politiche dei servizi per i bambini, volte a permettere un nuovo compromesso tra le esigenze di cura e il bisogno di nuovi spazi per l’affermazione professionale delle donne, alla riduzione della intollerabile pressione sui redditi medio-bassi del prelievo sulla casa e di quello fiscale, in tutte le sue forme, che blocca i consumi e impoverisce la società.
Ripartire dalla vita, vuol dire poi farsi carico delle conseguenze devastanti per il clima e per l’ambiente delle politiche di sviluppo, e di quelle energetiche perseguite in questi anni. Uno sviluppo sostenibile, che muova dalla riconversione ecologica dell’economia, è una necessità per garantire la vita sul pianeta, e per migliorare la qualità dell’esistenza, soprattutto nelle realtà più urbanizzate. Un partito che mette al centro la vita promuove ogni giorno azioni concrete –di governo, a tutti i livelli-, autorganizzate dalla società e nei comportamenti diffusi di tutte le persone.
E vita vuol dire infine essere il partito di tutte le fasi della vita, di un nuovo patto fra le generazioni, fondato sulla capacità di offrire opportunità vere ai più giovani, e di aprire una nuova mobilità sociale rispetto alle caste e alle corporazioni, e di riconoscere ai più vecchi un ruolo sociale di saggezza e di conoscenza a disposizione degli altri, e della collettività.
Per l’Europa sociale. Un nuovo patto dei produttori
La domanda ricorrente –durante l’esperienza del Governo Monti, che si è via via avvitata su sé stessa, fino a perdere ogni rapporto col Paese, domanda che ora si ripropone con la nuova fase politica- è con quali risorse si possa fronteggiare la rottura sociale determinata dal liberismo e dalle politiche di austerità imposte da Bruxelles. Su questo punto occorre essere netti e coraggiosi. Non c’è prospettiva di Stato Sociale, e di politiche di welfare, se non in una chiave europea. Ed è vero anche il contrario: l’intera costruzione europea –la moneta unica, e non solo, fino alle speranze originarie dei padri fondatori e del manifesto di Ventotene- si frantumerà in tempi anche rapidi se non si costruirà (con nuovi vincoli, non più finanziari, ma sociali) l’Europa sociale e del lavoro. I due pilastri devono essere la liberazione di risorse per la crescita (infrastrutture, sviluppo sostenibile, industria della cultura) e l’armonizzazione di nuovi sistemi universalistici di protezione, almeno a partire dai paesi europei che hanno una storia e una tradizione sociale comune.
In questa svolta, un vero e proprio New Deal europeo, in una crisi grave come quella del 29, vanno chiamati i produttori –proprio nel senso che a questo termine dava Bruno Trentin- a un nuovo patto contro la rendita e la speculazione, volto ad affermare nuove regole certe, a partire dalla netta divisione tra banche d’affari e servizio del risparmio, nell’economia, sulla strada timidamente aperta dall’avvio della Tobin Tax. Questo patto –una sorta di nuovo compromesso tra capitale produttivo e lavoro- accanto ai risvolti economici e sociali (fino alla difesa e all’estensione di prestazioni universalistiche nella salute, nell’assistenza, nella previdenza, e alla capacità di immaginare come in una fase di transizione la forza-lavoro in mobilità non venga espulsa ma partecipi, insieme ai giovani in cerca di prima occupazione, a grandi programmi pubblici di natura ambientale e culturale), dovrà tradursi anche in una rinnovata coesione democratica e civile. Senza corpi intermedi –sindacati dei lavoratori e delle imprese, associazioni studentesche, professionali e tematiche, terzo settore-, rinnovati profondamente nella loro capacità di rappresentanza democratica, non c’è possibilità di costruire nuova coesione sociale.
La libertà solidale
Nel ventennio della Seconda Repubblica, è sembrato che la libertà trovasse casa a destra, sotto l’ombrello liberista, e che la sinistra fosse sinonimo di statalismo. Con questo complesso, gran parte della sinistra ha cercato di uscire dalla propria tradizione, o sposando alcuni prodotti dell’ideologia liberista (come nel caso delle privatizzazioni dell’acqua e di grandi servizi pubblici) o immaginando un’improbabile terza via, che ha portato alle conseguenze note.
E tuttavia la risposta che si è data a questa tendenza non è sufficiente, e rimane dentro un orizzonte statalista. La teoria dei beni comuni, e di un’idea di pubblico che non è statale, indica una strada stimolante, da approfondire. Così come, per ciò che riguarda lo Stato unitario –come il Presidente della Repubblica ha avuto modo di ricordare-, la strada è quella federalista indicata da Carlo Cattaneo, e che fu accantonata dalla visione statalista di Cavour e dei piemontesi. Sempre più l’Italia, nell’Europa e nella globalizzazione, si deve pensare come potenza delle idee –direi anche spirituale, tanto più con l’elezione di Papa Francesco-, con istituzioni più leggere, dentro il contesto europeo.
Il tema della libertà, riproposto oggi nella rete, luogo di scambio di informazioni e di condivisione di conoscenze e di progetti comuni, nella crisi, coi suoi effetti, incontra il tema dell’altro. Della libertà altrui, senza la quale non sei libero. Della libertà solidale. Qui c’è la ragione di una rinnovata attualità delle idee libertarie e mutualistiche del socialismo, distinte e distanti dalle idee e dalle pratiche del socialismo statalista, nelle sue diverse versioni e degenerazioni.
Essere il partito della libertà solidale, vuol dire rimuovere gli ostacoli materiali e immateriali, che impediscono la libertà. A partire dalla libertà delle donne, vittime della violenza e dei soprusi, di un’organizzazione sociale e di modelli prevalenti di vita che non permettono pari opportunità.
Più in generale le libertà civili, in tutti i campi, e per tutti sono una frontiera costitutiva del nuovo PD.
La nostra patria
Il Partito Democratico, fin dai colori del suo simbolo, è un partito nato per unire e riscattare la nazione. E’ il solo Partito, malgrado gli errori commessi, che possa porsi l’obiettivo di costruire una nuova speranza condivisa, una sorta di religione civile italiana: che, muovendo dalla Resistenza e dalla Costituzione, mobiliti le coscienze e organizzi le forze perché l’Italia si scrolli di dosso il pessimismo, il fatalismo, l’egoismo di questi anni, e che faccia sentire patrioti i nuovi italiani, i lavoratori immigrati e i loro figli nati sul nostro suolo.
Ciò che si è perso, nella dialettica delle settimane passate, è proprio questo senso patriottico, e la sua consapevolezza.
La nostra patria ha un senso se sarà alla testa della costruzione di una comune patria europea. Le elezioni europee del 2014, in cui il PSE si presenterà con un unico candidato presidente, sono forse una delle ultime occasioni per invertire la tendenza che ha prevalso, soprattutto nell’ultimo decennio. Non abbiamo altri campi di gioco se non questo. Le difficoltà dei socialisti francesi, nella loro esperienza di governo, e quelle della SPD in Germania, a qualche mese dalle elezioni, come la non-vittoria del PD in Italia, dicono un’altra volta che dentro i confini nazionali né la sinistra, né un’idea di Europa vera hanno possibilità di affermazione. Il tema di una fase costituente europea, dando al PE nuovi poteri, o dotandosi di uno strumento ad hoc, non può andare a dopo il 2014.
E, come recitava un’antica canzone anarchica, “nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà”. L’Italia di Cesare Beccaria, che si è battuta nel mondo contro la pena di morte, è l’interlocutore decisivo per i paesi arabi impegnati in una transizione difficilissima, e la prospettiva euro-mediterranea ne è la cornice. Da Obama a Papa Francesco, dal confronto coi paesi del BRIC al nuovo dinamismo africano, il Partito Democratico deve scoprire una vocazione internazionalista e universalista, che si propone –per dirla con Enrico Berlinguer- il problema di un nuovo governo democratico del mondo.
Il Partito sociale. Per un “nuovo PD”
Il tema è quindi quello del partito, della sua identità, della sua funzione e della sua organizzazione. Se alla base della giovane vita del PD c’è stato un patto costitutivo, non scritto, tra correnti e capi-corrente dell’ex-Margherita e dell’ex-DS, esploso definitivamente in questi mesi, oggi si tratta di liberare il partito da questo blocco. E in tutta franchezza non sembra che operazioni generazionali, prive di contenuti, siano in grado da sole efficacemente di liberare il partito. Vorremmo anche aggiungere che, accanto ad un problema dei seniores, giustamente individuato da qualcuno, si è posto di recente qualche problema anche nella categoria juniores.
La riforma del PD, il suo rinnovamento profondo, la sua rigenerazione morale possono venire solo se si compie una rottura concettuale, direi epistemologica, nell’idea di Partito. Nella relazione di Fabrizio Barca ci sono spunti e idee interessanti su questi aspetti.
L’opzione di fondo, ne abbiamo scritto un anno fa nelle nostre note sul partito, è quella per un partito sociale: che organizza interessi, o li ascolta, li compenetra, trova forme anche flessibili, tipiche della rete, per attraversare la società, e per ascoltarla, e si propone di produrre cultura e idee, di farlo in modo aperto e partecipativo, studiando il proprio ambito (territoriale o sociale), e creando comunità. Del resto, come il caso dei seguaci dell’Unità sui network sociali dimostra, o come ancora dimostrano i soci delle Coop, o i più recenti gruppi di acquisto solidale e affini, già esistono comunità sociali, di idealità socialiste e mutualiste, che sono buoni esempi.
La struttura del partito e la formazione di chi lo dirige devono essere indirizzate al mutualismo, ai servizi autorganizzati, alla promozione di cultura e di educazione permanente. Immaginiamo un programma che, riprendendo la tradizione antica delle Case del Popolo e del Mutuo Soccorso, promuova l’apertura di Case della Democrazia, come luoghi di servizi e di cultura di una comunità allargata.
Questo impone una natura tendenzialmente federativa e federalista del partito. Federativa, nel senso di aprire una stagione di organizzazione sociale della politica, per categorie, professioni, interessi, in modo libero e aperto. Federalista, nel senso di demandare quote importanti di sovranità ai territori, compensate da poteri sostitutivi regolati.
La condizione per una riconversione di questa natura è, come detto, la fine dell’identità tra segretario del partito e candidato premier. Anzi: la restituzione dell’elezione del segretario agli iscritti al partito o, per me meglio ancora, al Congresso dei delegati degli iscritti, perché egli, o lei, sia un primo inter partes, con modalità più democratiche e collegiali. Si debbono creare due circuiti politici distinti: quello della rappresentanza, regolato dalle primarie e da una dialettica col partito; e quello del partito, indirizzato alla relazione sociale e luogo di elaborazione progettuale. I gruppi parlamentari e il partito dovrebbero quindi reciprocamente avere più autonomia. Gli eletti, a tutti i livelli, non possono più essere i proprietari di fatto del partito, o gli azionisti di riferimento di un tesseramento gonfiato.
D’altra parte il sistema delle primarie per selezionare le candidature nelle istituzioni, più regolato e più certo, si deve consolidare.
Sulla base di queste idee, e di quelle che verranno dalla discussione qui e nei territori, intendiamo proporre a tutte e a tutti coloro che condividono almeno una parte delle nostre preoccupazioni e delle nostre idee, una Costituente delle idee del nuovo PD, un’iniziativa politica comune e riconoscibile al Congresso.
Nello spirito del Laboratorio, per non essere l’ennesima piccola corrente, ma un luogo unitario di un pluralismo più libero e vero. E oggi, dopo lo choc dei giorni passati, sentiamo di avere un dovere di responsabilità in più.
Roma, 24 aprile 2013
(relazione di Pietro Folena alla riunione del Laboratorio Politico)
26 aprile 2013 alle 16:38
Scusi signor Folena, mi può dire come possono essere compatibili i suoi auspici riguardo al PD quando questo partito è alleato già da un anno e mezzo con una destra becera, clericale e reazionaria e in questi giorni sta per rinnovare questa vergognosa alleanza per un tempo indeterminato?
27 aprile 2013 alle 16:02
Concordo con Davide. Il congresso sará forse l’ultima occasione per scuotere il partito e per cacciare una classe dirigente fallimentare. Invito iscrtti, militanti ed elettori a non perdere questa occasione. Ma se la battaglia verrá persa, forse caro Folena bisognerá trovare altri interlucutori per poter realizzare i suoi auspici.