Qui di seguito il testo del mio intervento al Convegno “L’italiano in Europa. La lingua come risorsa. A vent’anni dalla scomparsa di Gianfranco Folena” svoltosi ieri alla Camera dei Deputati
“Parole, parole, parole, soltanto parole”, cantava Mina nel 1971. Era quella una stagione in cui -.non solo in amore, ma anche nelle piazze- le parole abbondavano. Siamo passati, nei decenni successivi, al ben poco fantasioso “fatti, non parole” con cui si esortava alla concretezza gli appassionati della prosa e della poesia, anche in politica, e si annunciava un lungo periodo dominato da un pragmatismo senza valori.
Ebbene mio padre, Gianfranco Folena, per la vita della parola -come di recente ha scritto Giulio Ferroni- aveva “un amore sconfinato”. Non solo perché, con Carlo Levi, pensava, per sensibilità sociale e culturale, che Le parole sono pietre -straordinario libro di Levi sulla Sicilia degli anni 50, con il quale vinse il Premio Viareggio, come avrebbe fatto Gianfranco Folena quasi trent’anni dopo con L’italiano in Europa-. Ma perché al rigore scientifico e filologico accompagnava sempre la curiosità per la parola che cambia, che è vita, che muta. Lo ricordo a lavorare per giorni, nel suo studio padovano, con la pipa in bocca, alla ricerca della migliore definizione di una parola: a testimonianza di quanto il progetto, prima di un aggiornamento e poi di un rifacimento del Dizionario Palazzi -che poi divenne, proprio nell’anno della sua scomparsa, Palazzi-Folena- abbia accompagnato gli ultimi vent’anni della sua esistenza. Il primo Dizionario della lingua italiana, ricordiamolo -purtroppo colpevolmente trascurato negli ultimi anni- , ad avere visto accanto ad ogni parola la sua data di nascita. Frutto non solo di un’eccezionale ricerca filologica, ma appunto del convincimento che le parole hanno una vita, una data di nascita, come ogni cosa vivente, umana e non umana: un inizio e molte volte anche una fine, e che la lingua, anzi le lingue, i dialetti, i generi letterari e artistici, il teatro, la lingua della musica, la pittura, e così via comunicano, mutano, raccontano quella cosa straordinaria che è l’esperienza umana.
Come ha scritto di recente Enzo Golino, Gianfranco Folena “nella sua quadrupla incarnazione di filologo, linguista, storico, critico, è stato un intellettuale eclettico e interdisciplinare”, capace di uscire dai confini dello specialismo (i cui fondamenti, tuttavia, possedeva in modo rigoroso). Ricordo gli studi degli anni 60 e 70 -l’epoca dell’impegno culturale di Adriano Olivetti- sulla lingua della pubblicità (l’analisi di “Metti un tigre nel motore”) o su quella del calcio, di Nicolò Carosio e di Tutto il calcio minuto per minuto. Questi studi si accompagnavano a quelli sulla scrittura dei pittori (ne è un esempio quel suo straordinario saggio sulla lingua scritta e su quella pittorica di Tiziano ) o a quelli riguardanti la lingua del teatro, quella della musica, e in particolare del melodramma, che accompagnano gli studi sul ‘700.
La febbre intellettuale che attraversa “L’Italiano in Europa” è scritta nelle prime righe della premessa: “Come tanti della mia generazione anch’io ho creduto, negli anni intorno alla guerra e dopo, in un’Europa unita politicamente e nella parità delle lingue e della cultura. E ci credo ancora, anche se quest’Europa”-è il gennaio del 1983-”…non è poi nata, sembra anzi, da quando ha avuto le prime istituzioni, più lontana che mai”. Il nostro Settecento -secolo di crisi della lingua italiana- è per Folena in realtà la prima proiezione italiana di questa unità. L’italiano in Europa è ad un tempo l’uomo italiano in Europa -individuo e popolo- e la lingua italiana in Europa. La crisi linguistica, come ogni crisi, non è distruzione, è mutamento.
In questa stagione così diversa -a trent’anni da allora-, dopo le grandi speranze accese dalla conquista dell’Euro -non solo moneta, non solo potere, perché moneta è potere, ma anche simbolo e linguaggio-, la crisi europea che stiamo vivendo non è solo l’istantanea del dominio dei mercati e della loro lingua unica, dello spread che cancella l’identità nazionale (bisogna eliminare tutti gli spread, le differenze), ma è anche e soprattutto crisi culturale, crisi di un’idea di multilinguismo condiviso, di italiano in Europa, a cui si è sostituita quella, più semplice, dell’inglese nelle università come lingua comune e obbligatoria (non importa se accompagnata da strafalcioni di italiano), e del credo economicista e ultraliberista importato dal mondo anglosassone.
Un’Europa, con una moneta unica e più lingue -nella quale l’italiano recitasse la parte di lingua della cultura, dell’arte, del teatro, della musica- richiedeva e richiederebbe, se siamo ancora in tempo, democrazia, politica, rispetto delle diversità culturali, in uno slogan quegli Stati Uniti d’Europa sognati da Altiero Spinelli fin da Ventotene.
L’ideologia della semplificazione estrema della comunicazione, l’impoverimento del linguaggio e delle parole -come scriveva Don Lorenzo Milani: “il divario da colmare tra il padrone e l’operaio è tra chi possiede 1500 parole e chi, invece, 150” -, l’omologazione delle coscienze spinge verso una orwelliana neolingua, nella quale i significati, il senso delle parole si perdono, si stravolgono, talvolta si rovesciano. “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, sono i tre slogan del partito unico, in 1984 di George Orwell. Il pensiero corre, nell’ultimo decennio, a terminonologie come guerra permanente, al chiamare flessibilità lo sfruttamento, al trionfo della forza dell’ignoranza nei festini dei Potenti. “Stiamo dando alla lingua la sua forma finale -dice Syme, curatore della neolingua-…Tu crederai che il lavoro consista nell’inventare nuove parole. Neanche per sogno! Noi distruggiamo le parole…centinaia ogni giorno. Stiamo riducendo la lingua all’osso”. “Il grosso delle stragi –prosegue Syme- è nei verbi e negli aggettivi, ma ci sono anche centinaia di sostantivi di cui si può fare benissimo piazza pulita”.
E allora difendere l’italiano, riscoprire il senso della Patria e della sua lingua, realizzare gli articoli 9, 33, 34 della nostra Costituzione, non vuol dire solo sostenere l’Accademia della Crusca, appoggiare la Società Dante Alighieri, promuovere gli Istituti Italiani di Cultura nel mondo e contrastare le cialtronesche anglofilie di chi pensa che il problema sia l’italiano. Vuol dire anche e soprattutto contrastare l’impoverimento culturale e linguistico, prima di tutto delle classi dirigenti, e quel comportamento di autismo politico che porta a considerare il linguaggio politico-giornalistico come, sì, il linguaggio cifrato di una casta.
Riscoprire la parola come vita -fare cioè propria la lezione di Gianfranco Folena- vuol dire cercare il senso perduto,e trovare anche nella lotta politica e delle idee non dico le frontiere del passato, dell’Italia che usciva dalla guerra e dal fascismo, ma il coraggio di battersi per dei valori autentici, di pagare dei prezzi di persona, di confrontarsi su idee chiare, diverse, anche alternative, di società.
Una politica cortigiana ha invece bisogno invece di poche parole, e nel silenzio sappiamo che le persone sono più sole.