E’ morto Paul Ricoeur. La stampa italiana ha commentato nelle pagine interne, e in modo un pò distratto, la scomparsa di uno deipiù grandi filosofi del 900. Poche eccezioni, e fra queste Liberazione e il Manifesto. Le Monde apre in prima pagina con la sua foto e ha quattro pagine di commenti e di analisi.
Un uomo al crocevia di ideologie, tendenze, religioni, discipline il cui pensiero aiuta molto a vedere in modo diverso questo tempo inquieto, e (proprio perché conosceva la sofferenza, anche quella più inspiegabile) anche le nostre sofferenze. Suggerisco la lettura di La memoria, la storia, l’oblio (pubblicato quando aveva 87 anni). Qui riporto una sua recente intervista ad Avvenire.

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Ricoeur: l’etica è il vocabolario dell’Occidente

«A 90 anni so che il pericolo sono l’accidia e la noia. E la cura è sapersi stupire. Molti oggi non capiscono la posta in gioco»

È stato il primo a formulare la categoria dei «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche, Freud), e, raggiunti i novant’anni, Paul Ricoeur è oggi, con Jacques Derrida, il maggior filosofo francese ed europeo vivente. Cominciò nel solco dell’esistenzialismo e della fenomenologia occupandosi di Marcel e di Jaspers, e lungo gli anni ha elaborato una teoria dell’interpretazione che pone al centro di tutto la persona. Tra le sue opere notevoli ricordiamo: «Il conflitto delle interpretazioni» (1969), «La metafora viva» (1965), «Tempo e racconto» (1983-85), «Dal testo all’azione» (1986) editi da Jaca Book. La summa del suo pensiero è un libro di oltre 800 pagine uscito quest’anno dall’editore Cortina col titolo: «La memoria, la storia, l’oblio».

Qual è la cosa più importante che vorrebbe trasmettere ai figli dei suoi allievi?
«Citerò il titolo di un mio libro: La critica e la convinzione. Per convinzione intendo al tempo stesso un’argomentazione e una motivazione di cui non si può dar conto. Nelle mie convinzioni c’è sicuramente un elemento non solo intimo e secreto, ma inaccessibile a me stesso. Quando mi dicono: “Ma se lei fosse nato in Cina non avrebbe questa filosofia, e non sarebbe cristiano”, rispondo soltanto: “Parlate di uno che non sono io”. Quanto all’importanza dello spirito critico, la riassumerò in una formula che non vuole essere uno slogan: casualità trasformata in destino da una continua scelta. Il destino d’essere nato in quella data famiglia che è la mia, in questo Paese, nella tradizione del cristianesimo a cui appartengo, di essere stato subito, per quanto ricordo, uno speculativo; ma anche di appartenere a una cultura occidentale che è l’unica in grado di esercitare non solo una critica permanente nei confronti delle scelte non fatte, ma anche un’autocritica. La forma particolare che assume, per me, il confronto tra convinzione e critica, è dunque la mia appartenenza al cristianesimo di tradizione riformata, in cui rientra però anche l’ap partenenza alla grande tradizione greca. Dunque, fonte greca e fonte ebraica. Invecchiando, sono molto più sensibile alle intersezioni e alle interferenze che alle opposizioni e alle rotture. Ad esempio, tra i profeti d’Israele e i tragediografi greci vedo una specie di assonanza, di risonanza profonda».
Secondo lei, esiste oggi un indebolimento dello spirito critico e delle convinzioni? E questo fatto non la inquieta?
«Da un lato, non vivo nel terrore. Dall’altro, non sono sicuro che le cose stiano davvero così. Sul piano sociale, politico, ideologico, ci troviamo infatti anche in un’epoca di contestazione. Fondamentalmente non mi pare che le risorse critiche siano minacciate. Basta essere andati in Estremo Oriente, in Giappone, in Cina, per vedere che il profilo dell’uomo occidentale non ha il suo doppio altrove, e che davvero rappresentiamo una forza critica. Inoltre, non sono sicuro che si possa giudicare il tempo in cui si vive. Lo si vede da questo: mezzo secolo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, ci accorgiamo di avere avuto valutazioni successive e diverse di noi stessi e, alla fine, non sappiamo come ci giudicheranno fra trent’anni. Una società così complessa e contraddittoria non può fare il bilancio di se stessa. Forse bisogna lasciare in sospeso il giudizio di disprezzo, di cui i vecchi debbono diffidare più degli altri».
Lei conosce bene gli Stati Uniti dove ha insegnato regolarmente per oltre quarant’anni. Secondo lei, perché americani e francesi non si stanno simpatici?
«Innanzitutto scorgo la rivalità tra due rivoluzioni, e forse tra due vocazioni all’universalità. Ma non mi piace entrare in giudizi complessivi. Diciamo che ho apprezzato molto l’università americana, il suo funzionamento, la qualità della ricerca che vi si conduce. Tuttavia c’è anche un aspetto dell’America che mi è non solo estraneo, ma addirittura insopportabile: il fondamentalismo protestante, che consiste nell’attribuire una specie di simbolismo biblico agli avvenime nti politici. Bisogna liberare la politica da criteri che non le appartengono. Proprio in questo riconosco il merito dell’Occidente: nell’avere dissociato la sfera politica da quella religiosa, non per ricacciare quest’ultima nel privato bensì per collocarla in un pubblico non fornito di potere e posizione istituzionale».
Come possono i filosofi influire sull’attualità?
«Penso che occorra fare un lavoro, più che semantico, per un uso corretto dei concetti. Una pulizia del vocabolario. E per obbligarsi reciprocamente a fornire l’argomento migliore. Ad esempio, stamani alla radio ho sentito una discussione sulla questione dell’antiamericanismo e delle manifestazioni pacifiste, dove si mettevano accanto i sostenitori di un pacifismo assoluto – «non combatterò nessuna guerra, di nessun tipo» – e i fautori di una posizione che è invece: “Faremo solo la guerra che avrà l’avallo delle Nazioni Unite”. Non è la stessa cosa. Bisognerebbe allora condurre un’analisi sul non detto, sull’usurpazione della concettualità. Non sacrificare tutto all’antiamericanismo primario che consiste nel dire: dal momento che è americano, può essere solo cattivo… Il ruolo del filosofo è evidentemente anche quello di provare a individuare la posta in gioco. Nella situazione attuale è proprio questo, secondo me, che risulta particolarmente insopportabile: il fatto di non conoscere la posta in gioco».
Torniamo a lei. Come vive oggi la notorietà?
«Si è detto spesso che ho ottenuto riconoscimenti tardivi e che oggi godo peraltro di grande notorietà, cosa che continua a stupirmi. Personalmente, non ho mai avvertito un mancato riconoscimento, credo per due ragioni: innanzitutto, perché anche se non ero considerato un filosofo importante avevo la stima dei miei studenti ed ero un insegnante felice. Non mi pesava, insomma, non essere considerato alla stregua di Deleuze, Foucault, per citare i due pensatori che ho più ammirato. La seconda ragione è che, quando ho scritto i miei libri, mi sono curato p oco dei lettori. Cosa che ha senz’altro degli inconvenienti – il fatto di non rispondere a un dato momento a un’attesa di lettura –, ma che si è rivelata un fattore di durata. Il mio problema era sapere: ho risposto alle mie domande? Ciò mi lasciava non solo poco preoccupato di sapere come sarei stato accolto, ma quasi incurante di come venivo effettivamente accolto».
Quali sono state le letture più belle della sua vita?
«Per me il blocco greco resta intatto. E mi oppongo risolutamente all’idea di quanti, nei programmi di riforma universitaria, vorrebbero segnare una cesura tra moderni e antichi. Sono molto più sensibile alla grandissima continuità culturale. Quando leggiamo i tragediografi o gli storici greci possiamo ritrovarvi perfettamente noi stessi. Sicuramente perché, nel corso del tempo, poche cose sono cambiate così poco come le passioni politiche, il rapporto con il potere. Chi è abituato a leggermi ha potuto constatare che impiego molto raramente il termine “moderno”. Parlo di “contemporaneo”, ma non faccio del moderno una categoria con la emme maiuscola di fronte agli antichi. Non so cos’è il moderno. Far coincidere il moderno coi Lumi non era ciò che intendeva Baudelaire quando diceva che il moderno era il tempo dell’effimero e non dell’universale».
Come vive i suoi 90 anni?
«Tranquillamente. Cosa penso della morte l’ho scritto in La critica e la convinzione. La frase che sempre mi accompagna è: «essere vivo fino alla morte». I pericoli della terza età sono la tristezza e la noia. La tristezza è legata alla necessità di abbandonare molte cose. Occorre fare un lavoro di rinuncia al possesso. La tristezza non è padroneggiabile, però si può padroneggiare il consenso alla tristezza. Quello che i Padri della Chiesa chiamavano l’akedia, l’accidia. Non bisogna cederle. La reazione alla noia consiste nell’essere attenti e aperti alle novità. Descartes la chiamava ammirazione, che coincide poi con lo stupore. Personalmente, arrivato a quest’età, riesco anco ra a stupirmi».

(Per gentile concessione del quotidiano «La Croix».
Hanno collaborato Nathalie Crom e Robert Migliorini.
Traduzione di Anna Maria Brogi)
3 luglio 2003
da Avvenire

7 Risposte a “La cura è sapersi stupire. Uno dei più grandi del 900 se ne è andato”
  1. antonio scrive:

    carissimo folena, non sapevo dei suoi interessi filosofici, ma questa sua sensibilità mi rende ancora più attento alle sue iniziative.
    a.

  2. MAT. scrive:

    LEI,ci stupisce sempre di più, vi aspettiamo. Auguri

  3. MAT. scrive:

    LEI,ci stupisce sempre di più, vi aspettiamo. Auguri

  4. Angelo scrive:

    Qui potete trovare una serie di articoli su Ricoeur:
    articolifilosofici.blogspot.com

  5. betting scrive:

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  6. iyblotuah ovsm scrive:

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