Da Sardegna Quotidiano di oggi

 

 

Pierluigi Bersani ha ragione nel sostenere che negli ultimi giorni si è messa in moto una macchina del fango per colpire il Pd e, soprattutto, il suo segretario. Sembra quasi che la forza tranquilla che Bersani ha dimostrato in queste settimane, che gli aveva fatto salire gli indici di popolarità e aveva fatto riprendere elettoralmente il Pd, sia stata vista con grande ostilità da una parte del potere economico e mediatico, anche quello influente a sinistra. Approfittare delle disavventure di Franco Pronzato, che solo per un brevissimo periodo ha collaborato con Bersani, e di quelle più recenti di Filippo Penati, che a Milano e in Lombardia per anni è stato dei Ds e del Pd una figura di primissimo piano, per colpire il segretario Ds è un atteggiamento cinico e, se praticato a sinistra, autolesionista. Esattamente come è stato cinico e autolesionista pensare, dopo l’affaire sanità in Puglia, di colpire una figura nuova e significativa come Nichi Vendola.

Fa bene quindi il Pd a reagire. E tuttavia occorre aggiungere, come Bersani implicitamente ha fatto, quando ha detto che non vi può essere diversità genetica ma solo politica, che il Pd, attraversato da una questione morale nuova che sconvolge l’intero sistema politico – in un momento in cui in larga parte dell’opinione pubblica covano sentimenti di lontananza, persino di disprezzo se non di odio nei confronti della rappresentanza politica- non può reagire solo in modo difensivo. La rottura di Tedesco col partito, rifiutando di dimettersi da Senatore, (scelta che sarebbe stato il modo più limpido per condurre la sua battaglia giudiziaria), la dice lunga sull’incertezza identitaria di un partito che ancora appare come una federazione di comitati elettorali, intrisa da un personalismo fortissimo, priva di quel senso di appartenenza e di comunità senza il quale non si può dire che esista un partito forte.

Se numerosi casi giudiziari, al di là di quelli più noti, scuotono il Pd in tanti territori, e anche in zone ad alta densità mafiosa e criminale, e se il prezzo pagato per l’unificazione tra differenti componenti storiche della politica italiana è stato quello di abbassare la guardia della difesa della legalità e di un’intransigenza etica senza la quale la sinistra non va da nessuna parte, allora vuol dire che la prossima Conferenza di Organizzazione del Pd deve mettere mano a qualcosa di importante. Il vero virus che ha attecchito, dalla destra alla sinistra più radicale, è quella del personalismo. Di un culto del leader senza partito, di un partito del leader o, come scrisse qualche anno fa in un libello fortunato Mauro Calise, di un “partito personale”, che ha portato a disperdere il valore della partecipazione collettiva, della democrazia quotidiana, della condivisione di obiettivi generali cui sacrificare, se necessario, anche legittime aspettative personali. Non predico un convento francescano. Del resto, tanti misfatti si sono compiuti anche all’ombra dei conventi. Penso che la sfida per il Pd sia quella di dar vita ad un partito di persone, aperto e accogliente, con un’etica condivisa, con regole e procedure democratiche certe, a partire dalle primarie, che evitino lo strapotere del ceto politico degli eletti.

Questa è la sfida più difficile. Bersani oggi, col Pd, con quella class action che ha ipotizzato, difende il suo operato e, perché no, la sua candidatura alle primarie come premier del centrosinistra. E fa bene. Ma deve cambiare il suo partito. Far entrare in gioco la società e i movimenti che si sono pronunciati in questi mesi, renderli cittadini di una grande forza democratica, allontanando pratiche clientelari e affaristiche che hanno attecchito anche a sinistra, questa è la sua sfida. Se saprà compiere quest’operazione, Bersani diventerà non solo premier, ma una persona credibile nell’obiettivo di rinsaldare il rapporto tra cittadini e democrazia, e di dar vita a un sistema politico migliore rispetto a quello sconsolante della Seconda Repubblica.

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