Da Sardegna Quotidiano di oggi

Barack Obama si trova di fronte alla sua prova più difficile. Entro il 2 agosto deve far approvare dai due rami del Parlamento una manovra da quattromila miliardi di tagli e riduzioni, per evitare il rischio default della più grande potenza mondiale. E il Parlamento resiste -tanto da sinistra, la maggioranza democratica al Senato, sui tagli sociali, quanto da destra, la maggioranza repubblicana alla Camera, sui tagli alle agevolazioni fiscali per i più ricchi-.

Non è una consolazione per i milioni di italiani che da oggi cominceranno a sentire gli effetti della manovra votata a tempo di record dal nostro Parlamento (mille euro in più a famiglia) dover constatare che si trovano in una buona e larga compagnia, e che ai cittadini con le stelle e le strisce toccheranno tagli e riduzioni sicuramente superiori. Certo: a noi un Obama manca, una leadership materiale e morale capace anche in momenti come questi -come ha fatto il Presidente Usa nel suo discorso alla nazione- di mobilitare con credibilità le coscienze dei cittadini. Abbiamo invece un Premier a cui i suoi collaboratori chiedono il silenzio per molti giorni, nel timore che le sue parole facciano precipitare definitivamente la credibilità italiana. Abbiamo un titolare dell’Economia, sul cui principale collaboratore pende una richiesta di arresto con gravissime imputazioni. Abbiamo una maggioranza in frantumi, col leader della Lega che sbeffeggia l’inno nazionale. E a questo si aggiunga che non si è vista traccia, nella manovra italiana né di una riduzione dei privilegi della politica -scandalosamente salvati nelle ultime convulse ore di confronto parlamentare sui tagli- né di un’opera di giustizia sociale, cominciando a chiedere veri e forti sacrifici ai più ricchi e ai più forti. Obama si appresta invece a chiedere ai benestanti ben altro contributo alla salvezza del Paese.

Rimane tuttavia la domanda. A quattro anni dalla crisi dei subprime, e dalla gravissima recessione che si è aperta dagli Usa a tutti i paesi occidentali, con l’emergere di nuove larghe povertà e con la proletarizzazione del ceto medio, la malattia del capitalismo non è stata neppure diagnosticata. Il Presidente Usa ha fatto approvare norme importanti per ridurre l’assoluta discrezionalità con cui i protagonisti della Borsa e della finanza avevano creato un’immensa montagna di ricchezza di carta. Ma quelle norme, in mancanza di una riforma radicale del Fondo Monetario -colpito anche dalla vicenda di Dominique Strauss Kahn-, della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si sono rivelate del tutto insufficienti ed inadeguate a immaginare quella riforma del capitalismo e della società capace di garantire un meccanismo equilibrato e coeso. Le modalità di intervento pubblico con cui si uscì dalla crisi del 29 -più semplici perché affidate ai singoli stati- non sono state perseguite. Le economie e le società dei paesi forti (e male farebbero Gran Bretagna, Francia e la stessa Germania a considerarsi già immunizzati dalla crisi) non reggono. Solo la Cina -che tuttavia è attraversata da tensioni sociali e democratiche destinate a crescere- sembra avere la forza di reggere. Le patetiche inutili riunioni del G8, allargate ai paesi emergenti non hanno tirato un ragno fuori dl buco.

Occorrerebbe avere, in queste settimane difficili, il coraggio di sanzionare penalmente gli speculatori finanziari che oggi colpiscono il nostro Paese, di promuovere un’azione di riforma capace di tassare e colpire le transazioni finanziarie internazionali -una Tobin Tax forte e generalizzata- e di finanziarie, con queste risorse, programmi sociali di riduzione della povertà e di crescita equa e sostenibile.

Il rischio vero è che i cittadini italiani, e quelli americani, si vedano bruciati in qualche ora dai criminali della speculazione quanto è loro chiesto per non far affondare la nave. La prospettiva di una rottura e di una crisi irriversibile delle grandi democrazie diventerebbe concreta.


Commenti chiusi.