

Inghilterra: il Labour party ha vinto nonostante Blair, non grazie a lui
Scritto da: Pietro Folena in Diario, EuropeiGlobali, Politica nazionaleda “L’Unità” di oggi 12 maggio 2005
Come interista so bene quanto sia importante vincere nel calcio e soprattutto nel calcio di oggi. Una squadra che domina una partita e poi pareggia il lunedì diventa una squadra in crisi, mentre la squadra che, magari per un colpo di fortuna o per madornali errori dell’avversario, riesce a spuntarla giocando mediocremente viene considerata una squadra in forma.
In politica, invece, non dovrebbe essere così. Non basta vincere, per governare occorre anche convincere. Per questo è davvero sconcertante il quadro che emerge, dai giornali italiani, riguardo le elezioni in Gran Bretagna (l’Unità rappresenta una rara eccezione di informazione corretta). Mentre tutti i quotidiani inglesi parlano di declino di Blair e del blairismo, sulla stampa nostrana commentatori e dirigenti politici si sbracciano per dimostrare “le stupende sorti e progressive” della Terza Via. L’ultimo in ordine di tempo è stato Giuliano Amato, il quale ci ha spiegato che Blair è un grande riformista perché ha recuperato le aree di crisi di Liverpool e Manchester. Non dubito che in quelle città sia stato compiuto un buon lavoro, ma credo che ciò non basti a far dimenticare la guerra in Iraq. La guerra non è stata una infelice parentesi. Blair ha mentito, ha fatto pressioni sui servizi segreti, ha appoggiato in tutto e per tutto l’ideologia della guerra preventiva. La guerra non è un incidente di percorso, semmai è il distillato del blairismo.
Si dice, ancora, che Blair ha raggiunto grandi traguardi sociali e che non è vero che egli rappresenti la continuazione del Thatcherismo. Peccato che ad elogiare la Thatcher sia stato lo stesso Blair e che le politiche blairiane siano descritte come liberali e thatcheriane non dagli estremisti di sinistra dei Socialist Workers, ma da compassati professori di economia di tutte le tendenze. Difficilmente si potrebbe spiegare, altrimenti, la perdita di insediamento nelle roccaforti storiche del Labour.
Quando sono stato a Londra per il Social Forum era già abbastanza chiaro che Blair avrebbe ottenuto un terzo mandato. L’analisi era semplice ma azzeccata: il New Labour ha deluso larghe fasce dell’elettorato di sinistra perché in campagna elettorale ha promesso una politica socialdemocratica e dopo ha continuato con la sua linea liberista. Ma, si diceva, non esistono alternative credibili: i conservatori sono dei radicali di destra, mentre i Lib-Dem, pur non appoggiando la guerra, sono comunque dei liberali che, per convenienza, si danno una pennellata rosa. In queste elezioni sono cresciuti toccando il massimo storico, ma certo non ci si poteva aspettare che milioni di elettori laburisti si affidassero ad un partito ideologicamente più moderato. Infine, a sinistra del Labour in sostanza non esiste nulla. Per cui, per mutuare un motto della signora Thatcher, “there is no altervative”, non c’è alternativa.
In realtà un’alternativa c’era e si chiamava Gordon Brown. Il cancelliere dello scacchiere, se fosse stato candidato premier, avrebbe portato il suo partito almeno 10 punti percentuali sopra il 35% conquistato dal Labour. Sia chiaro: Brown non è un “leftist”, anche lui è un propugnatore della Terza Via. Ma, a differenza di Blair, ha saputo intessere un dialogo con i settori sociali più deboli attraverso una legge finanziaria più generosa e ha promosso, nel New Labour, una revisione della Terza Via in senso più sociale. Questione di sfumature, ma sfumature che pesano milioni di voti.
Chi ha vinto, insomma, non è Tony Blair, oggi un leader in declino, che molto probabilmente non concluderà il suo “historic third term”. Chi ha vinto – nonostante Blair e non grazie a lui – è stato il partito laburista. E dentro il partito quel folto numero di parlamentari contro la guerra (una settantina) che non hanno firmato cambiali in bianco ma che anzi chiamano il leader alle sue responsabilità.
Cosa, quindi, ha da insegnare a noi italiani l’esperienza inglese? Molto, almeno credo. La prima lezione è che una sinistra che si maschera da centro o da destra, che aderisce al pensiero unico, non è ciò che può rispondere alle domande di socialità che crescono ogni giorno nelle società occidentali. Soprattutto non può rispondere alla critica della globalizzazione che, al di là del carsismo che caratterizza la visibilità dei movimenti, è oggi diventata senso comune ed orienta le scelte di milioni di persone. La seconda è che questioni come quelle legate all’uso della forza non possono essere messe tra parentesi, ma costituiscono uno spartiacque fondamentale per la scelta degli elettori. Anche qui da noi, in Italia, se persino nel centrodestra ci si pone il problema della permanenza dei nostri soldati in Iraq (per evidenti ragioni elettorali). Quando ci siederemo al tavolo del programma faremo bene a tenere a mente tutto questo.
PIETRO FOLENA
15 maggio 2005 alle 17:13
come è stato detto ieri a firenze da giordano, è alquanto singolare che si prenda a modello Blair nella fase calante della propria carriera politica e si guardi con un certo fastidio a Zapatero. invero occorrerebbe aprire una discussione su quello che è riuscito a fare Blair il quale aveva tutto favorevole per entrare nella storia mondiale come il più importante innovatore, così come prometteva inizialmente, mentre invece oggi suscita fastidio ed imbarazzo per gli stessi britannici i quali sono stati costretti a votarlo perchè non c’erano delle alternative un po’ più valide.
m.
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16 ottobre 2007 alle 19:27
il blairismo è una versione del reganismo, come il veltronismo (con aggiunta di coda alla vaccinare e pajata)
Pietro
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