In occasione della mostra su Beccaria, con l’esposizione del manoscritto originale del Trattato dei delitti e delle pene, che si svolge alla Camera dei Deputati, organizzata da MetaMorfosi, ho svolto ieriquesto intervento
Sale, anche nel mondo di oggi, dal profondo delle coscienze -come fu nel 44 e nel 45- la domanda spasimante che sempre risorge di fronte all’inutilità del dolore: “perché?”. Hannah Arendt ha scritto che “quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”. Il cuore del 900, tra le dittature nazifasciste e il totalitarismo sovietico, ha consegnato all’umanità una tragedia infinita che avrebbe forse, per il suo orrore, annichilito anche i grandi padri dell’illuminismo e della libertà.
Anche noi, dedicando a Cesare Beccaria – troppo trascurato nella sua patria ancora oggi – questo evento, fuori da ogni retorica celebrativa, dobbiamo porci due perché.
Perché nel 2011, nell’epoca in cui il digitale ha reso la comunicazione tanto veloce e la conoscenza tanto prossima, e quindi l’ignoranza più facile da contrastare, la pena di morte e la tortura -due delle barbarie contro cui il Trattato dei delitti e delle pene ha scritto duecentocinquanta anni fa parole così emozionanti- rimangono sistemi così diffusi? Perché, poi, la giovane nazione, l’Italia unita, che dopo l’unica vera rivoluzione politica che ha conosciuto il nostro Paese, il Risorgimento, abolisce nel 1889, grazie al contributo decisivo di Giuseppe Zanardelli, la pena di morte, centocinquanta anni dopo appare inquieta e incerta, e perché ancora oggi il principio di legalità, come prima condizione della libertà (non operare, come scrive Beccaria, “con leggi arbitrarie e non stabilite da un codice che giri fra le mani di tutti i cittadini”) sembra vacillare?
Bastano queste domande a dirci dell’assoluta attualità del pensiero di Cesare Beccaria. La critica -apparentemente utilitaristica, nella sostanza morale- della pena di morte (“quale può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili”), il rifiuto della tortura (la ricerca della verità attraverso il supplizio -vera procedura penale pre-illuministica, indagatio veritatis per tormentum – riduce l’uomo da persona a cosa), e infine la fede nella dolcezza e nella certezza delle pene (“uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse”) rappresentano, nell’epoca contemporanea, capisaldi insuperabili e sfide assolutamente aperte.
Ugo Foscolo, non senza una qualche esagerazione, nel 1824 scriveva che “se il popolo cominciava finalmente a distinguere fra peccati che si debbono rimettere al giudizio di Dio , e delitti che fanno responsabile il reo davanti alle leggi umane… solo il Beccaria ne ha merito”. E’ Beccaria stesso, come ha scritto Sergio Romagnoli, che riconosce il debito nei confronti di Machiavelli, di Galilei e di Giannone. E che scrive a Morellet, autore della traduzione commentata da Voltaire e che andò in giro in Europa -di cui qui sono esposte preziosissime prime edizioni-, del suo debito verso D’Alembert, Diderot, Helvétius, Buffon, Hume, “nomi che non si possono pronunciare senza essere emozionati” e poi verso le Lettere Persiane di Montesquieu. Foscolo parla dell’Italia prerisorgimentale, in cui si sta formando una giovane generazione di patrioti.
Altri diranno di Beccaria filosofo, giurista, letterato. Ciò che a mio avviso rende così attuale il Trattato è la sua forza morale, è il sentimento di ripulsa per i soprusi e per le ipocrisie, è l’empatia verso chi ingiustamente soffre, è , in una parola attuale, la capacità di indignarsi. In altri termini, prima di conoscere il carcere del regime, la stessa passione, lo stesso calore vive nel giovane Gramsci che scrive, non senza una provocazione, “odio gli indifferenti”. Il diritto affonda le sue radici nella coscienza umana: “Consultiamo il cuore umano -scrive Beccaria- e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto”. E’ questo altruismo -come ha scritto Piero Calamandrei- questo vedere riflessa nella libertà di ogni uomo la propria libertà, che alimenterà Foscolo e il Risorgimento. La polemica è contro i giuristi algidi, impersonali, più che contro i boia: “l’enigma di quei dottori che si compiacevano di dissertare in bel latino sui modi più efficaci per dosare i tormenti sul corpo degli inquisiti”. “Malheur aux hommes froids”, esclama Morellet nell’introduzione all’edizione francese. In questo senso il Trattato, uscito nel 1764, in un’epoca di sconvolgimenti, precede e accompagna le grandi dichiarazioni che iniziano l’era delle democrazie, quella del 4 luglio 1776 di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, e quella del 26 agosto del 1789 dei diritti dell’uomo e del cittadino, fondamento della Rivoluzione Francese.
Qui c’è il paradosso italiano. Il Trattato di Beccaria precede e in alcuni casi è più avanti – si pensi alla pena di morte, ripristinata e usata massicciamente nella Francia rivoluzionaria, o ancora in vigore negli USA – delle grandi dichiarazioni, e tuttavia è l’opera non di una nazione nascente ma di un uomo schivo e fragile, che rifugge da una diretta assunzione di responsabilità politica. E’ la contraddizione, come ha scritto Gianfranco Folena, “della coscienza nazionale di un uomo del secondo settecento, per il quale la patria ideale è ancora soltanto un più largo orizonte di lingua e di cultura, ed è priva di un reale contenuto economico, sociale, politico”.
Lo stesso Risorgimento è una straordinaria epopea rivoluzionaria e democratica, e tuttavia non si può considerare lo Statuto albertino come l’espressione collettiva e condivisa di quella rottura. Bisognerà attendere cento anni, la Costituzione del 48. Ha scritto Giuseppe Armani che la linea di demarcazione tra reazione e progresso, tra oppressione e libertà della nostra storia nazionale si riassume nell’idea di Beccaria secondo cui “non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa”. Carlo Cattaneo nel 1860 affermava che la conservazione o l’abolizione della pena capitale era il banco di prova delle nuove istituzioni. Al contrario nel 1926 le leggi eccezionali del fascismo la reintrodussero a sostegno del regime e col codice Rocco nel 1930 la riaccolsero -dopo le critiche di Ugo Spirito a Beccaria – nel codice penale. Ancora Calamandrei, nella seconda edizione del Trattato da lui introdotto, due anni dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana, scrive che l’accento di Beccaria è riconoscibilissimo: nell’art.25 che riconsacra il principio di legalità; nell’art.13 che sottrae all’arbitrio la cattura e la carcerazione preventiva; nell’art.27 che ristabilisce la presunzione di innocenza. Ma soprattutto nel quarto comma dell’art.13, che punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, nell’ultimo comma dell’art.27, che abolisce la pena di morte; e soprattutto nel terzo comma dello stesso art. che dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrarii al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ci sono voluti quarant’anni, dopo la Costituzione, per liberarsi del rito inquisitorio e darsi un codice di procedura più giusto. Ma la realtà concreta ci dice come permangano antichi vizi contro cui Beccaria polemizzava: la tracotanza dei più potenti, l’incapacità a distinguere tra reato e peccato, uno scarso rispetto del principio di legalità, pulsioni inquisitorie e di giustizia sommaria, una concezione della giustizia debole coi forti e forte coi deboli, di cui alcune legislazioni, prima fra tutte quella sull’immigrazione, sono testimonianza. Nell’esecuzione penale, in particolare, siamo ben lontani da quel sistema di pene dolci e certe di cui Beccaria ha scritto. Si tratta di promuovere -ne parla Paul Ricoeur in Amore e Giustizia – l’incorporazione tenace, via via, di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici, a partire da quello penale.
E tuttavia dobbiamo andare orgogliosi, come italiani, di essere eredi del primo stato al mondo che abolì la pena di morte, il Granducato di Toscana nel 1786; e dobbiamo essere orgogliosi di aver promosso, con consenso bi-partisan unanime, la moratoria della pena capitale votata dall’Onu, nel 2007, anche se ancora purtroppo disattesa.
La sfida universale dei diritti umani appare la più ardua. Dopo l’11 settembre la strada del conflitto militare – come dimostrano le pagine nere di Abu Ghraib e di Guantanamo- non l’ha certo aperta né favorita. Nel 48, dopo la Shoah e i lager, la Dichiarazione Universale sembrava aver acceso una speranza, tuttavia con pochi e scarsi strumenti. Il bipolarismo mondiale non ha permesso di affrontare questa sfida. Bisognava aspettare l’89. Nel 1988, quarant’anni dopo, Gorbaciov propone di trasformare la dittatura sovietica in uno “stato di diritto che garantisca la massima protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo”. La strada in questo senso si è dimostrata lunga e non ancora conclusa. Nel 2008 il Trattato viene pubblicato in arabo, anche col contributo italiano, a Beirut, in una stagione di risveglio libertario e democratico che oggi investe le grandi nazioni arabe.
Oggi questa vocazione universale, umanitaria potrebbe essere per il nostro Paese una grandissima opportunità internazionale. MetaMorfosi, che ha proposto al Presidente della Camera, grazie alla disponibilità della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, quest’esposizione, è lieta di aver così offerto un contributo alla riflessione su Beccaria. Mi piace immaginare un’era in cui impegnarsi contro le “colonne infami” -per citare la splendida opera del nipote di Beccaria, Alessandro Manzoni- possa essere, soprattutto per ragazze e giovani di ogni parte, una ragione di vita.