

Riforma Tv, ecco la mia relazione
Scritto da: Pietro Folena in Diario, Politica nazionaleOggi, come relatore del provvedimento, ho illustrato il disegno di legge Gentiloni di riforma della televisione. L’opposizione, per protesta, si è alzata ed è andata via…
Il disegno di legge in esame intende intervenire su alcune debolezze strutturali del sistema radiotelevisivo italiano, vale a dire l’assetto oligopolistico e la situazione dello spettro frequenziale, nonché correggere alcune disposizioni della legge n. 112 del 2004 e del testo unico della radiotelevisione che sono in contrasto con il quadro della normativa comunitaria in materia di gestione dello spettro e di accesso non discriminatorio alle risorse frequenziali ed ai relativi diritti di uso. E’ di oggi l’ultima pronuncia della UE in materia di illegittimità dei contributi concessi nella scorsa legislatura ai decoder del digitale terrestre.
A tal fine, come abbiamo visto, il disegno di legge introduce norme in materia di distribuzione delle risorse, tutela della concorrenza e del pluralismo, limiti alla raccolta pubblicitaria ma anche utilizzo delle frequenze, rilevazione degli indici di ascolto e di diffusione dei mezzi di comunicazione nonché vigilanza, controllo e applicazione delle sanzioni.
E’ del tutto evidente come tali questioni non possano non avere ripercussioni sulla definizione dei contenuti dell’informazione e della radiotelevisione, di competenza della Commissione Cultura, così come sul sistema pubblico radiotelevisivo, sulla tutela dei minori o sulla pubblicità e sui suoi destinatari. Recentemente, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha riconosciuto la stretta connessione tra il mercato delle risorse pubblicitarie e quello dei programmi e dei contenuti: da una parte, il primo consente la raccolta delle risorse per la realizzazione dei secondi; d’altro canto, lo sfruttamento dei diritti televisivi di alcuni contenuti particolarmente appetibili per il pubblico (premium) ha consentito lo sviluppo delle nuove tecnologie, quali ad esempio il digitale terrestre.
Voglio in proposito sottolineare che i provvedimenti in materia di informazione e comunicazione, come più volte ribadito dalla Corte costituzionale, riguardano il principio del pluralismo dell’informazione e più in generale il profilo della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’articolo 21 della Costituzione. In tale ambito, secondo la Corte, l’informazione è una condizione per l’attuazione dei principi propri dello stato democratico che si realizza assicurando il massimo pluralismo esterno, vale a dire una pluralità di voci concorrenti.
In proposito, il messaggio del Presidente della Repubblica in materia di pluralismo e libertà di informazione, trasmesso alle Camere il 23 luglio 2002, ha evidenziato come il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione non sono conseguenza automatica del progresso tecnologico ma richiedono politiche pubbliche volte a guidare tale processo di trasformazione ed ha sottolineato come, nell’elaborare una legge di sistema, si debba tenere presente che “il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione così come lo spazio da riservare nei mezzi di comunicazione alla dialettica delle opinioni, sono fattori indispensabili di bilanciamento dei diritti della maggioranza e della opposizione”.
D’altra parte, anche la direttiva quadro dell’Unione europea sulle comunicazioni elettroniche ha affermato che la politica audiovisiva persegue obiettivi di interesse generale, quali la libertà di espressione, il pluralismo dei mezzi di informazione, l’imparzialità, la diversità culturale e linguistica, l’inclusione sociale, la protezione dei consumatori e la tutela dei minori, tutti argomenti di interesse della Commissione Cultura.
Ritengo inoltre utile ricordare che qualsiasi intervento in materia radiotelevisiva investe l’intero sistema delle comunicazioni, ivi inclusa la stampa quotidiana e periodica e più in generale il settore dell’editoria, parte integrante del SIC che viene oggi modificato dal ddl in esame; anche a tutela della particolare limitazione di risorse a disposizione di tale settore in Italia rispetto agli altri paesi occidentali – determinata dalla prevalenza del settore radiotelevisivo – ritengo che il nostro dibattito debba rivolgere la dovuta attenzione alle esigenze di questo settore nell’ambito di una più generale riflessione sull’assetto generale dell’informazione e della comunicazione.
Più equa distribuzione delle risorse economiche, tendenziale e progressiva separazione tra operatori di rete e fornitori di contenuti, limiti alla capacità trasmissiva utilizzata dai fornitori di contenuti: abbiamo l’opportunità – e il dovere – di esercitare la nostra azione politica in questo momento di transizione affinché il nuovo assetto consentito dalle tecnologie non riproduca i limiti del vecchio sistema ma al contrario garantisca a tutti l’esercizio dei principi costituzionali che ho sopra ricordato .
E’ di particolare rilevanza, a mio parere, che questo ddl venga discusso in un contesto di complessiva riforma del sistema radiotelevisivo, contesto a cui abbiamo utilmente dedicato l’audizione odierna del Ministro Gentiloni. Esso oggi si compone di quattro provvedimenti diversi: il ddl che stiamo esaminando, il ddl sui diritti televisivi dello sport, che rappresentano una voce di spesa rilevante per le emittenti italiane, le linee guida illustrate dal ministro Gentiloni sulla riforma del servizio pubblico ed infine lo stesso contratto di servizio tra Stato e Rai.
Il nuovo contratto di servizio contiene a mio parere più che un’innovazione una piccola rivoluzione: mi riferisco all’obbligo di rendere disponibili sull’Internet tutti i contenuti prodotti dalla Rai, e di concederne lo sfruttamento non commerciale secondo le regole del fair use. In tempi in cui il copyright sembra essere diventato una legge della Natura, più che un modo di regolare i rapporti tra singoli e collettività, il fair use delle produzioni pubbliche è, senza dubbio, qualcosa che può contribuire a scardinare l’idea di “proprietà intellettuale” – un termine che fa intendere che le idee possano essere possedute come gli oggetti – per tornare invece al concetto di “contratto” tra autori e fruitori, all’origine del copyright e della brevettazione.
Sarebbe utile, lo segnalo fra gli altri al Ministro dei beni culturali, che analoghe previsioni siano inserite in tutte le convenzioni tra Enti pubblici e privati in materia di produzione culturale. Appare infatti singolare che si finanzino con i soldi di tutti alcune attività ma poi i cittadini non abbiano il diritto di fruirne liberamente. Ritengo, inoltre, auspicabile che i cittadini possano accedere ai contenuti prodotti dalla Rai anche sul mezzo televisivo, oltre che su Internet. Si potrebbe, a tal fine, considerare l’ipotesi che la Rai, dopo i passaggi televisivi previsti sulle proprie reti, conceda – a prezzi congrui – le proprie produzioni alle TV locali, secondo criteri che potranno essere in seguito analizzati. In tal modo i cittadini potrebbero accedere facilmente ai contenuti prodotti dalla Rai, e si aiuterebbero le TV locali con dignità d’impresa a migliorare lo standard della programmazione, dal momento che l’attuale sistema del mercato pubblicitario televisivo penalizza l’emittenza locale la quale, quindi, non ha grandi risorse per la produzione di programmi e – di conseguenza – per il raggiungimento di indici di ascolto competitivi.
Quanto alle linee guida di riforma della Rai, avremo modo di parlarne più approfonditamente, quando verrà presentato il ddl del Governo, entro la fine del primo semestre di quest’anno. Voglio qui dire che è stato un contributo importante l’aver voluto offrire, da parte del Ministro Gentiloni, un quadro aperto alla consultazione e alla discussione sulla riforma della RAI fin da quando il Parlamento avvia l’esame del ddl alla nostra attenzione. Questa sede – il parlamento – del resto è il primo e fondamentale luogo di “consultazione pubblica” e di discussione.
Già il ddl in esame abroga l’articolo 21 della legge Gasparri concernente il processo di privatizzazione della RAI. Dev’essere fatta chiarezza sul fatto che il servizio pubblico, per garantire i principi che ho più volte enunciato, deve essere finanziato dallo stato. Com’è noto gli obiettivi della riforma della Rai riguardano la diversificazione dei palinsesti dalla TV commerciale; una più accentuata spinta tecnologica; un vertice più autonomo dalla politica. Qui, ora, mi preme sottolineare la necessità di definire il perimetro entro cui viene ridisegnato l’assetto del sistema radiotelevisivo, vale a dire con una significativa presenza del servizio pubblico.
L’importanza e la carica potenzialmente innovativa del ddl Gentiloni– dirò dopo di alcune criticità che vanno a mio avviso corrette – sta nell’assicurazione di elementi di pluralismo dentro quello che è un “bene pubblico”, o meglio un “bene comune”, cioè l’informazione, intendendo con questo termine non solo i telegiornali, ma anche e forse soprattutto le produzioni televisive in generale, ivi comprese le fiction e i programmi di intrattenimento. Quanta parte del “senso comune” – mi si permetterà di rifarmi ad Antonio Gramsci – passa oggi attraverso la televisione, che è diventata la prima agenzia culturale del Paese. Certo, abbiamo anche mezzi alternativi, dalla radio ai giornali, ad Internet, ai libri, alla scuola. Ma la tv arriva ovunque, in tutte le case. La sua potenza è imparagonabile a quella di qualsiasi altro mezzo. E sappiamo, lo vediamo ogni giorno, di quale capacità persuasiva è capace. Insisto: non voglio riferirmi solo alla parte propriamente informativo-giornalistica, ma al complesso dei contenuti radiotelevisivi. I modelli culturali che passano in tv divengono i modelli culturali della società. Una tv fatta solo di Veline e di reality è una tv che trasmette un’immagine distorta del mondo, dei valori, persino del corpo. Non voglio imputare alla tv tutti i mali della società, e tuttavia neppure si può prendere sottogamba il fatto che i contenuti televisivi siano una parte rilevante nella continua ri-costruzione della cultura popolare. E’ ammissibile che tutto ciò passi solo dal mercato? Non credo. Serve, è indispensabile direi, un servizio pubblico all’altezza di competere con il mercato privato. Serve una riflessione sui contenuti, sugli indici di ascolto che non sono indici di gradimento, sull’appiattimento della produzione e la convergenza verso un “pensiero unico radiotelevisivo” che pare imperversare.
Noi abbiamo l’esigenza –più che di un “disarmo bilanciato” tra Rai e Mediaset, che dà un’idea negativa e punitiva, e che mette sullo stesso piano il servizio pubblico, che va letteralmente rifondato nelle sue ragioni, e una grande impresa privata che risponde legittimamente alle proprie logiche economiche- di dare al Paese una tv più pluralista, sia nel senso di più operatori, sia soprattutto nel senso di una offerta diversificata e della convergenza su modelli culturali pluralistici e di qualità. Per questo, ad esempio, ritengo che il sistema di rilevazione degli indici di ascolto sia superato e che non possa limitarsi a rilevare quanti utenti guardano un certo programma, ma anche il grado di attenzione, di condivisione, di gradimento dello stesso. Perché se in tv alle 15 o alle 20 tutte le reti passano lo stesso format, io telespettatore non posso scegliere. E allora o spengo la tv (e molti lo fanno), o se posso pago per una pay tv che dà quello che mi piace, oppure mi accontento di ciò che passa il convento, cosa che accade nella maggioranza dei casi.
Capisco che un discorso del genere forse interessa poco alle emittenti, che vendono gli spazi pubblicitari in base all’ascolto. E, tuttavia, mi chiedo se non convenga anche a loro che una trasmissione dentro la quale passa uno spot piaccia di più. Forse lo zapping sarebbe minore e gli stessi spot sarebbero più visti.
Proprio sulla pubblicità, e sull’affollamento pubblicitario, il ddl interviene assimilando le telepromozioni agli spot. Su tali questioni si sta svolgendo in ambito europeo un ampio dibattito nell’ambito della revisione della direttiva “TV senza frontiere”. Come è noto, l’europarlamento ha approvato in prima lettura un progetto più permissivo in termini di affollamento pubblicitario, pur consentendo agli Stati membri di adottare misure più restrittive. E in Italia l’adozione di misure più restrittive risulta necessaria poiché il nostro Paese ha una situazione duopolistica, nel sistema televisivo, non confrontabile con gli altri paesi europei.
In tale quadro, la misura proposta cerca di contenere l’affollamento entro limiti che consentano una fruizione migliore dei programmi ed una maggiore concentrazione sulla qualità della programmazione televisiva. L’utente non può essere mero destinatario di messaggi pubblicitari ma deve essere considerato il fruitore di una pluralità di servizi generali e culturali; in tale contesto una particolare attenzione deve essere riservata ai minori, che troppo spesso sono esposti al messaggio pubblicitario in assenza di adeguate tutele La nostra posizione, cioè la riduzione dell’affollamento, sarà nuovamente sostenuta in sede europea, ma ritengo che essa debba comunque essere affermata almeno a livello nazionale, anche al fine di riversare una parte degli investimenti su altri mezzi, come la carta stampata.
Parlavo prima degli indici di ascolto. Il ddl stabilisce che tale attività di rilevazione costituisce un servizio di interesse generale a garanzia del pluralismo e della concorrenza nel sistema della comunicazione. In particolare, l’articolo reca la delega al Governo ad emanare un decreto legislativo finalizzato a definire le modalità attraverso le quali l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni cura le rilevazioni degli indici di ascolto e di diffusione dei diversi mezzi di comunicazione
L’articolo 4, comma 2, come afferma il governo, ha l’obiettivo di favorire il pluralismo e la concorrenza nel sistema delle comunicazioni, garantendo che la rilevazione degli indici di ascolto risponda a criteri universalistici del campionamento, rispetto alla popolazione o ai mezzi interessati, assicuri la congruenza delle metodologie adottate nelle attività tecniche preordinate e connesse alla rilevazione degli ascolti televisivi, tenga conto delle diverse tecnologie e piattaforme trasmissive esistenti.
E qui, signor Ministro, ritengo che vi sia un limite che va corretto: come dicevo, la rilevazione del mero dato numerico è insufficiente. Deve essere a mio parere inserita la previsione che all’indice quantitativo sia sempre affiancato un indice qualitativo, l’indice di gradimento si diceva tempo addietro, che dia la misura dell’effettiva percezione del programma trasmesso.
Vi sono altre tre questioni che voglio sollevare in questa sede: il tetto di raccolta pubblicitaria stabilito al 45%, la gestione delle frequenze, il rapporto con le emittenti locali.
Parto da quest’ultima. Le televisioni locali rappresentano una ricchezza per il Paese che va assolutamente tutelata. In questi anni hanno garantito un sia pure parziale contrappeso al “duopolio” tanto che la legge stabilisce anche un fondo pubblico di sostegno a questo settore dell’emittenza. Credo che anche in questa sede vada meglio e di più tutelata e promossa la televisione locale. Anche, ad esempio, sul piano della raccolta pubblicitaria, che è la cartina tornasole del pluralismo, dal momento che – come dimostrano i dati – risorse pubblicitarie e ascolti televisivi vanno di pari passo.
E’ evidente, infatti, che se due soggetti nazionali – Rai e Mediaset – applicano tariffe pubblicitarie molto basse, e in generale molto più basse delle reti televisive nazionali degli altri paesi europei, ciò va a condizionare l’intero mercato pubblicitario del Paese e – ancora di più – il mercato pubblicitario delle TV locali. Non consentendo alle TV locali di raccogliere adeguate risorse dal mercato, il duopolio strozza il mercato stesso ed il pluralismo, poiché senza risorse le TV locali non possono ottenere indici di ascolto adeguati.
E’, quindi, indispensabile individuare delle misure che impediscano la concentrazione del mercato pubblicitario nelle mani di due soli soggetti, prevedendo anche misure a salvaguardia dell’autonomia delle tv locali e del loro mercato.
Noi abbiamo i dati rilevati al 2003 dell’Agcom che ci dicono, senza ombra di dubbio, che il mercato pubblicitario televisivo è caratterizzato dal duopolio: 62,7% Publitalia, 27,7% Sipra, 9,7% tutte le altre (Telecom, MTV, TV locali, etc.).
Il “duopolio”, come dimostra il raffronto con le altre esperienze europee, comprime il mercato e la sua possibile crescita.
Infatti, secondo dati Nielsen 2005, le risorse pubblicitarie del settore televisivo, in Italia, a confronto con quelle di Regno Unito, Germania e Francia, sono 4.914 milioni di euro contro i 5.900 di Regno Unito, 5.789 della Francia e 8.047 della Germania, in un mercato che negli altri stati europei non è concentrato sul mezzo televisivo nazionale, come in Italia, ma aperto a tutti i media. Infatti il mercato pubblicitario globale italiano è pari a 9.305 milioni di euro, contro i 12.970 del Regno Unito, i 18.001 di Francia, i 18853 della Germania.
Ciò dimostra che un mercato aperto e dove vige la concorrenza porta benefici anche a coloro che oggi si trovano in situazioni monopolistica.
Per questo, come ho già avuto modo di dire, non è vero quanto ha affermato il presidente di Mediaset riguardo alla penalizzazione che il ddl in esame rappresenterebbe nei confronti di Mediaset-Pubblitalia. Aprire il mercato significa farlo crescere. E se il mercato cresce, anche in presenza di una riduzione delle quote ope legis, i ricavi della singola società non è detto che diminuiscano. Dipenderà, come è evidente, dalla capacità di quella società di lavorare nel nuovo quadro.
Su questo, poi, occorre capire se il tetto del 45% sia adeguato oppure se invece non possa essere ulteriormente abbassato. E’ vero che esso, nei fatti, libererebbe ben il 20% del mercato attuale, permettendo la nascita di un nuovo polo e quindi maggiore concorrenza. Ma nei criteri della Commissione europea la quota del 40% è individuata come “legittimo sospetto” di posizione dominante. Credo che a questa quota occorra riferirsi. Infatti, nell’ipotesi che vi siano due competitors ognuno al 44,9%, noi avremmo solo il 10% appannaggio di un ipotetico terzo polo, oppure peggio decine di piccolissimi operatori ognuno con quote da prefisso telefonico.
Il 40%, invece, lascerebbe libero in ogni caso almeno un 20% di quota di mercato, abbastanza per poter dire che esiste un terzo polo e quindi una concorrenza reale.
E’ pur vero che la situazione in altri Paesi europei vede la presenza di operatori con quote attorno al 50%, quindi già il 45% rappresenta un esempio virtuoso. Ma è anche vero che in Spagna nessun operatore supera il 30%.
Sottolineo che questa parte del ddl è la meno “caduca” di tutto il provvedimento, che è per esplicita volontà del proponente “di transizione”. Gli effetti delle norme sulla raccolta pubblicitaria, infatti, andranno ben oltre la fase di transizione e di questo dobbiamo tenere conto.
Infine vi è il tema dello spettro delle frequenze. Sono stato tra l’altro tra i promotori di una pdl di iniziativa popolare sui beni comuni che definiva anche lo spetto delle frequenze elettromagnetiche un “bene comune” sul quale il pubblico (inteso come l’insieme Stato più società) deve avere in controllo.
Ora, è evidente che se lo spettro elettromagnetico è un bene pubblico che lo Stato “concede” in uso a soggetti pubblici o privati, come è già oggi a legislazione vigente, tale concessione deve avvenire sulla base di regole certe, trasparenti e di garanzia per tutti, come avviene in una sano liberalismo. E quindi, in sede di revisione legislativa, non si può non tenere conto di tutta una serie di interventi e fatti accaduti negli ultimi anni, in primo luogo le sentenze della Corte costituzionale, ma anche i diritti acquisiti da soggetti già vincitori di gare cui però è stato nei fatti impedito l’esercizio dell’oggetto delle gare stesse.
Infine, mi preme rilevare l’esistenza di un fenomeno, quello delle Tv di strada, nuovo e interessante, che può apparire di primo acchito un atto di pirateria radiotelevisiva ma che a mio parere è invece un modo per usare meglio anche lo spettro elettromagnetico. Oggi queste tv sono fuorilegge e vengono chiuse e sigillate dalla Guardia di Finanza, anche se in realtà non causano danno alcuno quando abusivamente occupano delle frequenze non utilizzate – la qual cosa le pone in una situazione sostanzialmente differente rispetto ad altri soggetti di cui ho appena accennato-. Mi ripropongo quindi di proporre una soluzione che riesca a contemperare l’esigenza legittima dello Stato di sapere chi trasmette, quella delle emittenti di non vedersi occupate frequenze acquistate e quella delle tv di strada di svolgere un servizio di prossimità così particolare.
Concludendo, il ddl Gentiloni rappresenta a mio parere un significativo passo in avanti rispetto alla situazione attuale, un riforma vera, di quelle che non si limitano a registrare lo status quo, come è accaduto sin dal decreto del 1984. Credo che sia necessario per salvaguardare – direi per ripristinare – il pluralismo televisivo. Per questo le Commissioni hanno deciso un esame molto approfondito, perché si tratta di una materia particolarmente delicata in una democrazia. Ho però voluto dare qualche indicazione di possibili modifiche, che credo il Ministro possa almeno in parte recepire, riguardo alcuni punti che ritengo al centro dell’attenzione nostra, in particolare della Commissione cultura, punti sui quali auspico un ulteriore approfondimento.
25 gennaio 2007 alle 19:17
che bella relazione, ma tu non fai parte della commissione cultura?
e allora che c’azzecca.
25 gennaio 2007 alle 19:18
si fa parte della commissione cultura
28 gennaio 2007 alle 9:34
la commissione cultura ha competenza sulle televisioni (sui contenuti, non sulle reti)…capisco che se la si guarda non si capisce perché
28 gennaio 2007 alle 20:46
Guarda un pò il Sig. Pietro che risponde…
Questa si che è una notizia, da portare in tv.
Non dimenticarti che aspettiamo sempre notizie del personale Precario Ata della Scuola.