Oggi Finanza & Mercati (il giornale dell’agenzia Bloomberg) ha pubblicato questa mia intervista sulla cultura e il rapporto con i privati.

Pietro Folena, di Rifondazione comunista, è presidente della Commissione Cultura della Camera. In più occasioni non ha mancato di far notare che «non ama il clima bipartisan». A F&M Imprese spiega come affronterà la responsabilità politica della macchina culturale.

Introducendo in commissione l’audizione del ministro Francesco Rutelli, lei ha tenuto a sottolineare, sono parole sue, che «la cultura non è merce». Ma, presidente, sia nella conservazione che nella valorizzazione, la cultura costa. Come la mettiamo?
La cultura è un grande bene comune. Dire che non è merce non significa che non ci sia anche un mercato nella cultura e che nel campo della cultura non possano inserirsi anche i privati. Affermare che è un bene comune vuol dire che le imprese che operano in questo campo devono rispondere al grande problema della tutela del patrimonio che non è omologabile a una partita di pomodori. Da bene immateriale, la cultura può essere consumata senza risultare impoverita.

In concreto che cosa significa?
Prima vorrei sgombrare il campo da un luogo comune degli ultimi 10-15 anni secondo il quale, dove c’è lo Stato a garantire la tutela e la conservazione del patrimonio culturale, c’è inefficienza. Come se la soluzione di tutto fosse un mercato con la M maiuscola. E non è così, perché gran parte delle imprese che operano direttamente nel campo culturale chiedono aiuti pubblici, perché anche per loro i costi sono eccessivi.

Per il futuro, su chi dovranno gravare i tanti costi aggiuntivi che si prospettano? Sui contribuenti? Sugli sponsor?
Ritengo che le spese per queste voci di bilancio, che oltre al patrimonio strettamente storico-artistico, riguardano anche la scuola, la ricerca, l’editoria, lo spettacolo, siano parte di un’unica industria culturale, di cui la Rai è l’unità operativa più importante. Credo che nel bilancio complessivo dello Stato, quelle voci debbano avere un peso diverso, secondo parametri internazionali. Negli Stati Uniti, considerati modello di economia di mercato, la California investe oltre il 40% del bilancio nella cultura.

Negli Stati Uniti, che lei ha citato, il sistema fiscale è molto più premiante che in Italia verso le imprese che investono in cultura.
E veniamo al punto cruciale, il vero problema dell’Italia sono gli scarsi investimenti in cultura, in particolare in ricerca, dei privati, delle imprese, piuttosto che dell’amministrazione pubblica, la quale ha sempre fatto la sua parte.

Insomma, lei sostiene che le imprese private dimostrano minore sensibilità alla crescita culturale rispetto alle istituzioni pubbliche.
Non solo questo. Nei cinque anni a venire, il governo Prodi dovrà inizialmente scendere dai volumi raggiunti in precedenza per poi aumentarli, dopo una selezione che consenta di eliminare gli sprechi, presenti anche nel ministero del quale mi devo occupare più direttamente. Non si tratta di ridurre il personale, penso piuttosto all’eliminazione di una progressiva parcellizzazione dei dipartimenti, che c’è stata e che nel tempo ha prodotto una sovrapposizione di competenze con riflessi negativi anche nei rapporti con i privati e in particolare con le imprese. Il che rende la macchina poco efficiente.

Soffermiamoci ancora un po’ sulle imprese, in prospettiva italiana. Cosa si dovrà fare per aumentarne l’impegno?
Ci sono delle misure che si possono introdurre per migliorare la partecipazione dei privati non solo alla conservazione del patrimonio culturale, ma alla produzione di cultura. Penso all’abbattimento dell’Iva, in cambio di abbassamento dei prezzi, penso a interventi fiscali mirati con valenza culturale.

Come vede la gestione dei musei?
Bisogna monitorarli senza ideologismi. Comunque, ci sono molti casi in cui la presenza dei privati nel marchandising, nella bigliettazione e nei servizi al pubblico in generale, in questi anni, ha funzionato bene, per esempio, consentendo di allungare i tempi di apertura. Il che non toglie che la regia di tutto questo debba restare pubblica.

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