Stamane ho parlato in aula sul decreto che decide il ritiro dall’Irak.
Signor Presidente, il disegno di legge che stiamo esaminando in questi giorni, congiuntamente alla mozione sulla politica estera e sulle missioni militari, rappresenta, a nostro avviso, a mio avviso, un passaggio molto importante per mettere le basi di una nuova politica estera del nostro paese.
Già nella precedente legislatura l’esame di analoghi provvedimenti rappresentò un’occasione importante per un’iniziativa comune di diversi parlamentari dell’opposizione (sedevo, allora, nelle file del gruppo dei Democratici di sinistra), i quali, sulla base di un sentire comune, arrivarono a votare, spesso e quasi sempre insieme, congiuntamente, contro alcune missioni di guerra in cui il nostro paese era impegnato. Oggi, la Sinistra Europea, il gruppo di Rifondazione, soggetto politico più largo nel quale siamo impegnati, nasce, in qualche modo, anche da quell’esperienza comune.
I deputati Mantovani e Deiana hanno avuto ed avranno modo – il primo ieri, la seconda stamani, nel prosieguo della discussione – di illustrare le posizioni del nostro gruppo. Io desidero porre l’accento soltanto su un aspetto di cui si è occupato il relatore Ranieri.
Il cuore della nostra discussione verte sul ritiro delle truppe italiane dall’Iraq. Non si tratta di un atto di fuga, non si tratta soltanto di una dissociazione dalla violazione aperta dell’articolo 11 della Costituzione, compiuta dal Governo Berlusconi in passato, e da una scelta che ha portato l’Italia in una collocazione subalterna alle politiche di guerra promosse dall’Amministrazione Bush. Colgo l’occasione per sottolineare che quell’atto è stato pagato con un prezzo di sangue troppo alto anche in termini di vite umane italiane e, a tale proposito, ricordo i ragazzi, i militari, ed i civili che sono morti, nel corso di questi anni, a causa di quelle scelte.
Il ritiro dall’Iraq è un atto di dialogo, un atto di pace, un atto che nasce dalla volontà di individuare altri mezzi rispetto a quelli militari, altri mezzi per impegnarsi nella lotta contro il terrorismo, per la libertà, per la democrazia e per la giustizia sociale. Molti di noi hanno sempre sostenuto che non si esporta la democrazia. Sicuramente, la guerra è incompatibile con la democrazia: guerra e democrazia sono incompatibili. La logica della guerra mina lo Stato di diritto, produce fatti sistemici come i fatti di tortura che abbiamo visto in Iraq o quelle forme concentrazionarie che abbiamo visto riprodursi nel carcere di Guantanamo (del quale il nostro ministro degli esteri, e questo ci riempie di forza, ha giustamente chiesto la chiusura all’Amministrazione Bush).
Sento riecheggiare nelle parole del deputato Gregorio Fontana (quando si riferisce a quello che Bertinotti definisce il sud del mondo) l’ideologia del «bianco buono» che parla in nome della superiorità del nord: sono parole riempite di quella stessa retorica per la pace e per lo sviluppo che animava i dibattiti che precedettero le grandi avventure coloniali nelle quali l’Italia si impegnò in un altro secolo; sono parole sulla base delle quali, come ha scritto in uno straordinario libro lo storico Angelo Del Boca, il paese si macchiò di crimini infami.
Voglio limitarmi, in questa sede, a due considerazioni. In primo luogo – ne ha parlato Ranieri – è fallita la strategia militare contro il terrorismo.
Questo è un problema che investe anche altre culture rispetto a quella che io rappresento, non solo la cultura della sinistra moderata o del nuovo partito democratico, di cui Ranieri è, in qualche modo, una delle espressioni più significative, ma anche le culture di destra (penso ai dubbi che sorgono nell’ambito dell’amministrazione americana proprio in questa settimana a proposito dell’efficacia di quelle politiche).
Tutto questo però fa il paio con l’impotenza sostanziale del G8 – diciamoci la verità, uno spettacolo abbastanza preoccupante -, delle Nazione Unite e della comunità internazionale. Nel 2001, si svolse un vero e proprio atto di guerra senza precedenti sul suolo degli Stati Uniti con l’abbattimento delle Torri gemelle e, in quel momento tragico, ci fu un’enorme occasione per gli Stati Uniti e per l’umanità di fondare una strategia democratica che portasse a combattere il terrorismo, ma anche a rimuovere le cause su cui il terrorismo cerca di costruire una propria legittimazione.
Prima, si è imboccata la strada della guerra in Afghanistan, ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non sostengo la sciocchezza che con i talebani si stesse meglio che oggi, tuttavia voglio dire con chiarezza che oggi, nel 2006, questo paese è dominato dai signori della guerra, è dominato dalla produzione dell’oppio! E una nuova credibilità la stanno assumendo nei territori meridionali dell’Afghanistan, non i vecchi talebani, che furono cacciati, ma una nuova offensiva integralista e fondamentalista, una qualche forma di «irachizzazione» della situazione afghana che dovremo affrontare – temo – nei prossimi mesi.
E poi l’Iraq, fuori di ogni pregiudizio politico; basta leggere la stampa internazionale, spesso più obiettiva rispetto a tanta parte del dibattito nostrano che ci narra di una Baghdad, di una zona verde nella quale stanno i potenti al riparo degli attentati, e di una Baghdad controllata territorialmente da veri e propri signori della guerra, con metodologie che minano la sicurezza delle persone, di condizionamento grave; cercano di mantenere quel minimo di ordine rispetto all’anarchia che è stata provocata dall’intervento internazionale.
La guerra ha aumentato l’insicurezza. L’involuzione autoritaria in Iran, la vittoria di Ahmadinejad – l’ha detto Ranieri – sono il frutto malato della politica che abbiamo fatto nel corso di questi anni e la chiusura ulteriore degli spazi democratici che c’è stata in Iran è il frutto malato di quella strategia! Non vogliamo parlare della Somalia, dell’Indonesia, della Malesia, della eco delle tensioni che arrivano dalle zone periferiche della Cina: anche lì sta ribollendo qualche cosa.
O vogliamo dirci, colleghi, a proposito del relativismo etico, dell’indifferenza con cui tanti benpensanti pronti ad organizzare fiaccolate a senso unico hanno manifestato, quando in India le bombe hanno sterminato 200 indiani? La vita di un povero operaio indiano che va nella metropolitana di Mumbai conta di meno agli occhi di quella presunzione del bianco buono che vuole aiutare il sud del mondo, della vita di altri che vengono colpiti nelle metropolitane di Londra o altrove!
Ma è il Medio Oriente la fotografia di questo fallimento. E la situazione della Palestina e di Israele è sotto gli occhi di tutti, come ha scritto, l’altro giorno il poeta Adonis nello straordinario componimento «Vivere e morire per niente». Esso recita: «Quel che accade in queste ore in Palestina e in Libano, non è che l’esplosione di una condizione che si perpetua da oltre mezzo secolo [...]. Ebrei, Cristiani, e Musulmani stanno riscrivendo la storia delle loro origini, con lo stesso sangue: quello di Abele. In quanto tale, questa storia non è, soltanto, palestinese, è universale».
Otto ferrovieri israeliani sono morti a Haifa, erano operai! E quelle decine di famiglie con i bambini albanesi morti negli autobus, fuggendo dalle città bombardate dagli israeliani, erano lavoratori! E a Gaza, dopo il rapimento inaccettabile di un soldato, ci sono stati 150 morti nel corso delle ultime settimane! Si sta chiudendo un cerchio!
La strategia militare sbagliata che gli Stati Uniti hanno imposto all’Occidente nel corso di questi anni ha determinato un quadro di chiusura rispetto all’Iran di Ahmadinejad, a Hezbollah, a Hamas, mettendo in difficoltà perfino le componenti moderate esistenti all’interno di Hamas o di Hezbollah. Vorrei ricordare che Hezbollah ha un ministro nel Governo siriano e che Le Monde – che non è un giornale comunista – oggi titola «Parigi manifesta la sua solidarietà con il Libano». Questa è la stampa internazionale in questi giorni! Altro che il provincialismo con cui in Italia si discute della politica estera!
Ora, dobbiamo cambiare strada e vi è un problema che coinvolge anche il campo pacifista. Lo voglio dire con onestà: nonostante le bandiere della pace e la grande manifestazione del 14 febbraio 2003, che portò 100 milioni di persone in tutte le piazze del mondo a dire «no» alla guerra, tuttavia, nel corso di questi tre o quattro anni, la logica della guerra sta vincendo. Dobbiamo, purtroppo, guardare in faccia questa realtà e domandarci con quale strategia possiamo uscire da tale logica che, oramai, appare fuori controllo.
Non sono a favore di quello che viene definito, spesso con disprezzo, una specie di atteggiamento imbelle. Bisogna porsi il problema di un’ingerenza umanitaria non violenta e democratica, e chiedersi quali politiche il nostro paese e l’Europa debbano portare avanti, ad esempio, sul terreno delle relazioni economiche con molti paesi. Bisogna chiedersi quali politiche mettere in campo in rapporto ai contingenti civili e anche ai necessari contingenti di polizia militare presenti in alcune zone. Oggi, intendiamo farlo rispetto al Darfur e ad altre aree. Vorremmo si facesse lo stesso anche rispetto al Medio Oriente, non tardivamente, quando ormai tutto è saltato, ma in tempo per garantire la sicurezza e la pace di tutti, di Israele, della Palestina, dei lavoratori di una parte e dell’altra, del Libano.
Credo che le decisioni che si assumeranno oggi, anche in rapporto all’Afghanistan, non risponderanno a quanto molti di noi avrebbero voluto. Vi è un diverso punto di riflessione su questo nodo. Tuttavia, salutiamo come una mediazione ed un compromesso significativo il fatto di avere raggiunto l’obiettivo di un mancato potenziamento della nostra presenza militare, dando al Parlamento, attraverso il monitoraggio di cui ha parlato la presidente Pinotti, la possibilità nel corso dei prossimi mesi di svolgere un dibattito senza pregiudiziali e senza paraocchi in ordine a quanto sta accadendo oggi in Afghanistan. Mi rivolgo ai colleghi della maggioranza, ma anche a quelli dell’opposizione, considerato anche che tanti, al di fuori di qui, ci dicono che in Afghanistan la situazione sta precipitando.
Signor Presidente, concludo il mio intervento dicendo che la guerra e la logica dello sterminio terroristico sono l’altra faccia delle ideologie di antisemitismo, delle rinnovate ideologie di antisionismo, che negano l’esistenza dello stato di Israele, e che noi respingiamo nel modo più netto. Ma per far ciò, cari colleghi, occorre affrontare di petto la grande colpa che l’Occidente ha maturato nel corso di questi anni. E questa grande colpa è stata l’aver trascurato, per quanto riguarda la situazione palestinese, la necessità di offrire una soluzione politica quando ve ne era la possibilità. Tutto ciò non è accaduto. E diviene attuale la domanda che il Pontefice ha rivolto a se stesso, uscendo dai campi di sterminio, allorquando si è chiesto: ma Dio dov’era di fronte a tutto questo? La nostra domanda non riguarda Dio, bensì noi stessi: ci possiamo chiedere dove sono gli uomini e cosa possano fare. E ciò che possono fare è uscire dalla guerra e imboccare una strada di iniziative democratiche, civili e pacifiche.

Una Risposta a “Una politica di pace”
  1. giggi cuozzo scrive:

    caro Pietro, sfogliavo internet e dopo aver visitato il tuo blog, che seguo di continuo, ho navigato nel blog di beppe grillo: sono le 14 e 30 di mercoledi 19 e ho appena visto le foto di alcuni bambini finiti sotto i missili di israele. ti prego, se puoi di andarle a vedere, parlarne e se ti va dare evidenza a quet’ennesimo scempio a coloro i quali, nella cosiddetta sinistra che sempre più si allontana dall’orizzonte del sottoscritto, ancora dubitano circa la necessita di dire no a qualsiasi guerra in corso e di mobilitarsi al più alto livello e con tutti i mezzi perchè il fuoco cessi ovunque. perdonami se scrivo questo post come commento alle tue considerazioni sull’iraq.
    ciao
    giggi cuozzo