Oggi si vota anche per la scuola. Perché se la riforma costituzionale del centro-destra fosse confermata, la “devolution” colpirebbe in primo luogo proprio la scuola che perderebbe il suo ruolo di “agenzia” che produce e riproduce la cultura nazionale, di luogo in cui si crea l’unità culturale del paese.
La Gazzetta del Mezzogiorno ha pubblicato questo mio articolo.

Folena: «Anche la scuola resti una e indivisibile»
da La Gazzetta del Mezzogiorno del 24 giugno 2006

Cosa succederebbe alla scuola italiana se domenica e lunedì i cittadini non respingessero, con una valanga di «no», la (pessima) riforma costituzionale del centrodestra? Semplicemente non esisterebbe più la scuola italiana ma venti scuole regionali. Ogni regione avrebbe competenza esclusiva nell’ «organizzazione scolastica», una definizione abbastanza larga da permettere di infilarci corsi di studio che non hanno equivalenze in altre regioni. I docenti non verrebbero più selezionati in base a concorsi validi su tutto il territorio nazionale, ma regione per regione (e chissà con quanto clientelismo aggiuntivo e con quali ricatti per gli insegnati precari). Ogni regione potrebbe scegliere persino parte dei programmi, cioè di ciò che concretamente si insegna a scuola, come se non esistesse, o fosse di poco conto, una cultura nazionale. Non è allarmismo, è quello che c’è scritto nella riforma approvata dal centrodestra, sotto il ricatto della Lega, che non a caso è la strenua difensora di questo pericoloso pasticcio. La scuola non è un servizio pubblico qualsiasi, non è neppure un pezzo del Welfare state come gli altri. Ha una sua specificità perché è il luogo dove si trasmette l’identità e la cultura di un popolo. E’ un luogo che deve essere unificato e unificante, altrimenti salta la nazione e con essa lo Stato, la Repubblica. Lo capirono bene i padri della patria, quando, subito dopo l’Unità d’Italia, si prodigarono per avere una scuola pubblica su tutto il territorio nazionale. Lo capirono i costituenti, quando scrissero che lo Stato è obbligato a istituire scuole di ogni ordine e grado nel Paese. Lo capì anche Gianfranco Fini, quando, diversi anni fa, di fronte all’ipotesi di fare dell’Italia uno stato federale, disse che occorreva però mantenere l’unità delle funzioni principali dello Stato (la politica estera, la moneta, la difesa, la polizia) e vi aggiunse anche l’ «unità di cattedra», vale a dire quella della scuola e dell’istruzione in generale. A distanza di tempo, spiace vedere Alleanza Nazionale contraddire tanto palesemente la propria stessa denominazione. Le parole di Bossi, che ha fatto intendere di essere pronto alla rivolta nel caso non passasse il referendum, faranno di sicuro riflettere molti elettori della Destra. Un paese unito ha una sola scuola. Programmi uguali a Torino e a Bari. Una qualità elevata al Sud come al Nord. Docenti meridionali che possono insegnare a Milano, e viceversa. Studenti che possono trasferirsi da una regione ad un’altra senza dover dimostrare qual è il loro curriculum e la loro preparazione, per il semplice fatto che studiare in un liceo meridionale deve dare la stessa preparazione e gli stessi contenuti dello studio in un liceo del nord Italia. Scuole dove studiano insieme i figli dei ricchi e quelli dei poveri, i bambini e i ragazzi migranti e quelli nativi del nostro Paese. Tutto questo verrebbe compromesso, a svantaggio soprattutto della scuola del Mezzogiorno che avrebbe meno fondi. Così come verrebbe compromesso il sistema sanitario, già troppo «regionalizzato» e si aprirebbe il pericolosissimo varco della polizia regionale: una nuova polizia che, se va bene, sarà un inutile duplicato dei Carabinieri e della Polizia di Stato; se va male sarà un ostacolo al loro corretto funzionamento; se va malissimo può diventare uno strumento di coercizione della libertà in mano a un presidente di regione magari troppo affascinato dalla disponibilità di uomini e mezzi di repressione. In questi anni si è ceduto troppo alle parole d’ordine della devolution. Anche noi del centrosinistra. Al contrario occorre ricentralizzare alcune cose. Penso all’istruzione professionale, cioè alle scuole come gli IPSIA e le scuole “alberghiere”, che sono una forma di istruzione che in altri paesi ci invidiano, scuole che permettono una formazione tecnica seria ed effettivamente “professionalizzante” senza però rinunciare alle basi culturali che ogni lavoratore, ogni cittadino, deve avere. Scuole da inserire, insieme alle altre, in una riforma dell’obbligo scolastico che lo elevi non solo per ciò che riguarda l’età ma anche la qualità. Così come credo che sia urgente modificare profondamente la (contro)riforma Moratti che rende la scuola meno pubblica, meno “per tutti” e più “per pochi”. Una legge che fa figli e figliastri, reintroducendo nei fatti il vecchio avviamento professionale. Sulla scuola e l’istruzione, insomma, non si può e non si deve transigere. La scuola deve essere la scuola della Repubblica e come la Repubblica dev’essere una ed indivisibile.

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