

I costi sociali ed economici della “delovution”
Scritto da: Pietro Folena in Politica nazionale, tags: Localedi Pietro Folena – da “Sud-Est”, numero di Novembre 2004
I costi sociali
La riforma costituzionale del governo (ddl Senato n.2544-B) introduce, tra l’altro, sostanziali modifiche all’assetto federale della Repubblica, così come definito dalla riforma costituzionale del centrosinistra, approvata alla fine della passata legislatura e confermata dal referendum popolare.
In particolare, interviene sulle materie di competenza dello Stato e delle Regioni, ridisegnando i confini tra ciò che il Parlamento – e quindi lo Stato centrale – può normare e ciò che invece è lasciato alle singole Regioni. Non si tratta di modifiche di poco conto, ma al contrario di un ribaltamento della logica che mosse la riforma dell’Ulivo (della quale, più avanti, sottolineeremo anche limiti ed errori).
Quella riforma, nel definire ciò che fa lo Stato e ciò che fanno le Regioni, partiva dall’assunto che lo Stato è garante non solo dell’interesse nazionale (sebbene tale formula non venisse usata) ma – e soprattutto – dell’unità economica, politica e sociale della nazione. In altre parole, tutte le materie per le quali la Costituzione recita “la Repubblica assicura e tutela…” (ad esempio, la salute, l’istruzione, il lavoro, la disunita sociale, ecc.) erano o di competenza esclusiva dello Stato (vale a dire che solo il Parlamento poteva legiferare in merito) oppure erano competenze “concorrenti”, nelle quali lo Stato definiva, tramite normative quadro, i principi e le prestazioni “essenziali” mentre le Regioni potevano legiferare su come, in concreto tali principi e tali prestazioni venivano attuale o elargite.
Questa impostazione, dicevamo, viene stravolta, perlomeno per due settori fondamentali: l’istruzione e la sanità. Si badi che non si tratta di due settori qualsiasi, ma del nucleo dello stato sociale, insieme alla previdenza e all’assistenza. In altre parole, se il senato dovesse approvare questa riforma, il Welfare state così come oggi lo conosciamo potrebbe sparire e venire soppiantato da 20 sistemi sanitari diversi e da 20 sistemi diversi di istruzione.
Andiamo quindi nel dettaglio. Recita il comma 2 dell’art. 34 della riforma Calderoli: «Spetta alle Regioni la potestà legislativa esclusiva nelle seguenti materie: a) assistenza e organizzazione sanitaria; b) organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; c) definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; d) polizia amministrativa regionale e locale; e) ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
Riguardo alla sanità, è pur vero che il testo assegna allo Stato, nel comma precedente, la definizione di “norme generali sulla tutela della salute”. Ma si tratta di un principio talmente vago che non può realisticamente costituire un bilanciamento alla norma, ben più precisa e circostanziata, che attribuisce alla Regioni la competenza esclusiva su «assistenza e organizzazione sanitaria». Cosa vuol dire, questo, in concreto. E’ semplice: la fine del Sistema sanitario nazionale.
Ogni Regione, ad esempio, potrà stabilire se il suo sistema sanitario dovrà essere pubblico o privato. Se certe prestazioni saranno gratuite o a pagamento. Se i farmaci saranno disponibili a prezzo pieno o sociale. Se ci saranno o meno rimborsi per le cure fuori dalla Regione o addirittura all’estero. Se un cittadino incapiente (ovvero che non raggiunge un reddito tale da pagare le tasse) potrà o meno accedere alla sanità pubblica. Se un cittadino non appartenente alla Regione potrà recarsi in un ospedale e venire curato gratuitamente – o a prezzi sociali – come avviene oggi.
In sostanza, viene meno l’unitarietà della sanità.
Se la Lombardia, per fare un esempio, applicasse la pienezza dei poteri assegnati dalla riforma, potrebbe decidere di assicurare le prestazioni sanitarie tramite una rete di cliniche private convenzionate con la Regione. Ora, un cittadino pugliese, che per motivi di lavoro o di studio si trovasse a Milano, potrebbe essere respinto da queste strutture che non avrebbero il dovere di curare chi paga le tasse fuori dalla Regione Lombardia.
Ancora: se la Puglia facesse la medesima scelta, chi può assicurarci che un qualsiasi cittadino, a prescindere dal suo reddito e dalla cittadinanza, venga in effetti curato in un ospedale della Regione? Chi potrebbe assicurare, ancora, che ai cittadini pugliesi venga riservato lo stesso trattamento di quello che può godere un malato di una regione ricca?
Sappiamo tutti benissimo che la sanità nel Mezzogiorno, già oggi, è di qualità decisamente inferiore rispetto a quella del Centro-Nord. Ma con questa riforma tale stato di cose diverrebbe “costituzionale”. Sarebbe cioè impossibile per lo Stato imporre alla Regione di elevare la qualità dei suoi servizi sanitari. Sarebbe impossibile imporle di istituire più ospedali pubblici e meno convenzioni con le cliniche private. Sarebbe impossibile imporle di curare chiunque, in qualunque condizione di reddito o di cittadinanza. O almeno sarebbe più difficile farlo, perché l’ “assistenza e l’organizzazione sanitaria” non sono più materie sulle quali lo Stato possa direttamente legiferare.
Le disparità tra regioni aumenterebbero a dismisura. Quelle ricche, potendoselo e volendoselo permettere, continuerebbero ad avere servizi efficienti. Quelle meno ricche – vale a dire il Mezzogiorno – dovrebbero accontentarsi di servizi scadenti, minimali o forse di nessun servizio pubblico e aperto a tutti, ma solo di
Il secondo capitolo riguarda l’istruzione. Anche qui il discorso è simile. Dire che “organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione” sono materie di esclusiva competenza delle Regioni, vuol dire smembrare il sistema scolastico nazionale. Ogni regione potrebbe decidere, di punto in bianco, come devono essere organizzate le scuole, se ad esempio in classi di 20 o di 50 alunni, se ci deve essere una scuola elementare in ogni comune o solo grandi scuole elementari nelle città più grandi. Un ragazzo di Foggia potrebbe raggiungere il diploma per strade diverse rispetto a un suo coetaneo di Torino, con livelli qualitativi differenti. E se il ragazzo di Foggia dovesse essere costretto a cercare lavoro a Torino, un’azienda potrebbe considerare quel suo percorso inadeguato e non assumerlo. Ma la riforma non si ferma qui. Dice anche che le Regioni decidono una parte dei programmi scolastici. Il che porterebbe a studiare la cultura gallica e la religione druidica nel Veneto, o a valorizzare certe sotto-culture a seconda del colore politico dell’amministrazione regionale. Con effetti sull’unità nazionale facilmente intuibili. Del resto, quando si fece l’Unità d’Italia la prima riforma a cui si lavorò fu proprio quella della scuola, perché l’istruzione fosse la stessa in tutto il territorio nazionale. Con questa riforma si torna indietro di 150 anni.
In parole povere, viene meno l’unità culturale del Paese, l’unità sociale della Repubblica. Lo Stato rimane uno smistatore di fondi e, in prospettiva, neppure quello. A rigor di logica, il Ministero della Salute dovrebbe venire abolito e quello dell’Istruzione ridotto ad un dipartimento di secondo piano.
I costi economici.
E’ complicato, per oggi, dire quali saranno i costi economici della riforma. Tuttavia è possibile fare alcune stime. Per la sanità, ad esempio, incrociando gli studi di diversi istituti come Isae e Scuola superiore dell’Economia e delle Finanze, si prevede una maggiore spesa di 503 milioni di euro l’anno. Significa una cosa semplice: o lo Stato copre questa cifra, oppure certe regioni non avranno più una sanità decente. Per l’istruzione si parla addirittura di 44mila milioni di euro. Cioè otre 80mila miliardi di lire. Una cifra spaventosa. Come è spaventosa la cifra di incremento sull’assistenza pubblica: 10mila milioni di euro.
Ancora: sulla ricerca scientifica si arriva a 3.800 milioni di euro, per i trasporti a 2500. Lo Stato non ha tutti questi soldi. Non ce li hanno meno che mai le regioni. Delle due l’una: o non si applica la devolution, oppure, se si applica, il Mezzogiorno non avrà più né sanità, né istruzione, né politiche pubbliche sulla ricerca e la promozione industriale. Con la conseguenza che le regioni meridionali non ridurranno mai il gap che le separa dal resto del paese. E non perché, come accade oggi, ci sono ritardi, inefficienze, una classe politica corrotta o incapace, una classe economica restia ad investire, ecc. No, sarà la Costituzione a stabilire questa differenza e nessuno potrà più farci nulla.
Il federalismo dell’Ulivo
Ma non possiamo, in questa sede, non rivisitare criticamente anche il “nostro” federalismo. E’ stato detto che si è sbagliato ad approvare il federalismo a maggioranza, perché questo ha costituito un precedente anche per la riforma oggi all’esame delle Camere. Bene, ma occorre fare un passo avanti. Abbiamo dato troppo spazio a parole d’ordine non nostre. Faccio un esempio: abbiamo demandato alle regioni l’istruzione professionale, vale a dire l’organizzazione delle scuole come gli ex-IPSIAM, che costituiscono un fiore all’occhiello del nostro sistema formativo, attraverso corsi professionalizzanti che riescono a tener dentro i sistema di istruzione fasce di studenti meno acculturate o comunque più indirizzate verso il “fare” che il “pensare”. In certe regioni – come la Puglia – sono l’unica alternativa ad una formazione professionale regionale assolutamente inadeguata. Dare anche queste scuole alle regioni vuol dire, nel Sud, ridurle a ciò che è oggi sono i corsi di formazione professionale in buona parte del Mezzogiorno: fondamentalmente un modo che certi enti hanno di sostenersi.
Ma, più in generale, si può dire che abbiamo sbagliato a seguire un modello che assegna competenze esclusive alle Regioni. Negli Stati Uniti il governo federale può intervenire su qualsiasi materia. Se non lo fa, è perché valuta che il singolo stato può ravvedere da solo. Ma l’Unione ha sempre il potere di legiferare ed imporre qualcosa ai singoli stati, oppure di istituire un’Agenzia federale che faccia quello che il Texas o lo stato di New York non fanno.
Questo, ad esempio, è stato un elemento fondamentale nell’affermazione dei diritti civili per la popolazione di colore o per istituire biblioteche pubbliche in tutta la nazione.
Non si capisce perché, in Italia, il Parlamento non possa dire la sua su tutto quello che accade nel territorio e stabilire, per dare a tutti tutto ciò che uno stato moderno deve assicurare, non solo i “livelli essenziali” dei servizi, ma anche come tali livelli debbono essere raggiunti e, nel caso, sostituirsi alle regioni se queste si dimostrano non adeguate al compito che dovrebbero svolgere.