di Corrado Stajano (da l’Unità del 27 gennaio 2006)
Anche se si sono visti e rivisti il cancello di Auschwitz, con quella scritta «Il lavoro rende liberi», le immagini dei forni crematori, i cadaveri ammonticchiati simili a larve, anche se si sono ascoltate le memorie dei sopravvissuti e si sono letti i libri della sterminata bibliografia sulla Shoah, si prova ogni volta un colpo al cuore.
Si prova ogni volta un colpo al cuore quando ci si trova davanti a un brandello di quel passato, una lettera, un manifesto, una fotografia, un documento. Tutto questo fu vero? Si ha quest’impressione, ad esempio, osservando al Museo di storia Contemporanea di Milano che ha allestito una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia dal 1938 al 1945 la pagella di una bambina che fa da specchio a quel tempo atroce.
Si chiama Gisella Vita Finzi, nata a Milano il 17 agosto 1930, «di razza ebraica». Non è iscritta alla Gioventù italiana del littorio, frequenta la scuola mista per israeliti, la IV, alla Scuola elementare di via Spiga, nel centro della città. Siamo nell’anno scolastico 1939-1940, «l’anno XVIII dell’Era Fascista», e la bambina, in una fotografia accanto alla sua pagella, cammina in un viale – le norme «per la difesa della razza» sono state approvate nel dicembre 1938 – leggendo con evidente preoccupazione il Corriere della Sera.
Proprio su quel giornale è ora in corso una polemica tra storici e scrittori: se sia utile o meno il «Giorno della memoria», il 27 gennaio di ogni anno, istituito dal Parlamento con una legge del 20 luglio 2000 in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. C’è chi depreca l’evento, fortemente critico.
Come se non fosse il frutto di un’umanità riscattata ricordare quella macchia nera che pesa sulla coscienza del mondo. Un mondo dove la causa della tolleranza non è mai vinta, dove ogni conquista civile e sociale va riconquistata, dove i segni dell’indifferenza, del cinismo, della caduta dei lumi sembrano perenni e lo dimostra anche la gratuità di questa controversia giornalistica.
Sulla Shoah non si conosce mai a sufficienza, nonostante gli studi, le sentenze dei tribunali del dopoguerra, i materiali documentali accumulati negli archivi.
Alla mostra di Milano colpiscono ancora i vecchi album di fotografie delle famiglie ebraiche sterminate, le lettere anonime – gli impiegati della Società Assicuratrice italiana di Milano che denunziano al prefetto il direttore «ebreo despota» – la fotografia della devastazione, nel 1941, della Sinagoga di Ferrara di cui scriverà Giorgio Bassani, i foglietti di carta da pacco gettati dai convogli dei deportati – «Avvertire a Prima negozio di via Nazionale che la moglie e la madre stanno insieme» – , i cartelli sulla porta dei bar: «In questo locale gli ebrei non sono graditi». Drammi e dolore.
Non bisogna dimenticare che persino nella Shoah trova posto l’equivoco pregiudizio «Italiani brava gente». Anche Hannah Arendt, nel suo La banalità del male, scrive del comportamento benevolo dei cittadini della penisola nei confronti degli ebrei perseguitati. Ci furono effettivamente uomini e donne che si prodigarono per salvarli. I religiosi furono spesso fraterni, i conventi si spalancarono.
Alla Certosa di Farneta, vicino a Lucca, i padri certosini pagarono con la vita. Funzionari dello Stato si barcamenarono nel doppio gioco. Ma ci furono poi coloro che per odio antiebraico, per furore ideologico, per denaro, per vendetta, compirono azioni abbiette condannando a morte con le loro delazioni il vicino di casa, il compagno di scuola, il rivale in amore o in commercio. Queste motivazioni si intrecciano spesso tra loro. I soldi, la carriera, l’avidità di mettere le mani sui beni degli ebrei fecero insomma da molla all’agire nefando. La solidarietà umana fu scarsa, la paura fu motivata.
Anche quei professori universitari che dopo le leggi del 1938 presero il posto dei 96 colleghi espulsi dagli atenei non si posero troppi problemi morali (se non altro, però, non firmarono condanne a morte come fecero più tardi nel tempo tanti connazionali con le loro spiate).
È uscito di recente un libro di grande interesse, Caino a Roma, di Amedeo Osti Guerrazzi, professore di Storia contemporanea alla Sapienza, pubblicato dalle edizioni Cooper, documentata ricostruzione di quel che accadde allora nella capitale. La ricerca, che ha per sottotitolo «I complici romani della Shoah» fa crudamente luce sulle responsabilità di tutta una comunità.
Non ci fu soltanto l’agire belluino della bande fasciste, La Kock, la squadra Perrone, il gruppo Cialli Mezzaroma di Palazzo Braschi. Ci furono i singoli che approfittarono di quel che stava accadendo e fecero della tragedia ebraica un immondo mercato. Per la denuncia di un ebreo adulto la tariffa pagata dai nazisti era di 5000 lire; per una donna 3000 lire; per un bambino 1500 lire. Questo di Amedeo Osti Guerrazzi è un libro pieno di storie che neppure un giallista nero avrebbe saputo inventare perché eccessive, non credibili. Ma purtroppo vere.
Umberto Spizzichino e Luciano Luberti erano amici fin dalle scuole elementari all’Istituto Pestalozzi, in via Montebello. Nel 1944 Umberto decise di fuggire in Svizzera e chiese aiuto all’amico. Luciano gli diede appuntamento in viale Manzoni. Dove le Ss lo portarono in via Tasso, poi a Fossoli, poi ad Auschwitz dove morì il 28 agosto 1944.
Molti portinai si trasformarono per cupidigia in pericolosi delatori. Come lo diventarono colleghi d’ufficio, baristi, negozianti, piccoli imprenditori che si impadronirono della quota del socio, autisti che denunziarono piena fiducia in loro, trafugatori di merce che gli ebrei avevano nascosto prima di fuggire.
Non tutti erano stati uomini di malavita. Colsero l’occasione, diventarono complici delle Ss italiane, furono protetti da questurini, usati dai tedeschi che avevano altro cui pensare in una città cresciuta a dismisura nel numero degli abitanti, sotto il fuoco dei Gap, con gli alleati alle porte.
Ci furono anche ebrei che tradirono i correligionari. Come Celeste Di Porto, conosciuta come la «Pantera nera» del ghetto, bella e feroce, legata a Giovanni Cialli Mezzaroma, un ex capitano degli arditi che, scrive Osti Guerrazzi, «ebbe sulla coscienza la sorte di decine di ebrei da lui o dai suoi sottoposti arrestati e consegnati ai tedeschi».
Rubarono, depredarono, saccheggiarono in cambio di povere vite vendute.
Memorie di un sottosuolo difficile da dimenticare. Davvero si può parlare di retorica sul cosiddetto «dovere della memoria»? Necessità della memoria, piuttosto, segno di libertà.
Chi l’ha conosciuto sa bene come Primo Levi voleva che fossero soprattutto i giovani a sapere di quel passato. Perché nulla di simile – fu la sua angoscia fino alla morte – accada mai più.
30 gennaio 2006 alle 19:29
certo che alla luce della violenza verbale che si è scatenata negli stadi, forse vale la pena riaprire il dialogo sulla discriminazione in maniera più approfondita.
è un momento un po’ tragico, in cui oltretutto si è ricominciato a parlare di tortura, per cui non si capisce dove sta andando la civiltà, se di civiltà si può ancora parlare.
e.
8 luglio 2006 alle 4:07
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1 agosto 2006 alle 8:20
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15 agosto 2006 alle 10:58
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15 agosto 2006 alle 11:00
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4 gennaio 2007 alle 7:46
Happy New Year! See U!
4 gennaio 2007 alle 15:12
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5 gennaio 2007 alle 6:37
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27 gennaio 2007 alle 17:30
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6 febbraio 2007 alle 22:55
Qpbskold!
7 febbraio 2007 alle 12:28
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