Solo in Italia, negli ambienti benpensanti della sinistra -o di quella che fu la sinistra- si può immaginare che la responsabilità della sconfitta del Labour Party sia nel profilo più netto e radicale che questo partito, con la guida di Jeremy Corbyn, ha preso. L’ossessione di questi ambienti è che la sinistra per vincere deve diventare liberale, e rinunciare a sé stessa. Si tratta -da Matteo Renzi a Carlo Calenda fino a larga parte del PD- dei nostalgici di Tony Blair, di Bill Clinton e della “terza via” di Anthony Giddens. Questi signori dovrebbero con onestà intellettuale riconoscere che, se i laburisti sono stati sconfitti, i liberali in tutte le loro espressioni sono stati spianati. Non ci sono più. Lo dico con allarme, perché anche i conservatori di Boris Johnson assomigliano più a Nigel Farage e all’estrema destra nazionalista british che non ai tories della Thatcher. Occhieggiano a posizioni xenofobe e razziste. Certamente Corbin ha commesso degli errori, in questi anni, dilapidando uno straordinario consenso che lui era riuscito ad attrarre attorno al suo Labour. Il principale ha riguardato l’Europa, perché la lezione inglese ci dice che la sinistra se non è internazionalista e europeista è destinata alla sconfitta. Inseguire la destra sovranista sul suo terreno è un errore esiziale. Il secondo ha riguardato gli scivoloni comunicativi che hanno permesso di accreditare la falsa tesi di un Labour antisemita.
Ma rimane il fatto che le politiche liberali non sono l’alternativa alla destra sovranista di Johnson. La sfida per la sinistra è costruire un programma globale, sovranazionale, come ci insegna Friday for Future, non solo sull’ambiente, ma anche sul lavoro, sui diritti, sulla democrazia. Occorre fare una battaglia delle idee, anche lunga, casa per casa, Quartiere per quartiere, fabbrica per fabbrica, posto di lavoro per lavoro.
La sinistra può vivere solo se ha un respiro universalistico.
“Nostra patria è il mondo intero”.