Se qualcuno, vista la forza della candidatura di Massimo Zedda a Presidente della Regione Sardegna, si era fatto l’illusione, dopo la bella rimonta di Giovanni Legnini in Abruzzo, di un rapido rovesciamento di fronte, si è dovuto ricredere.
La strada per la sinistra, e per una nuova alleanza democratica e progressista, è lunga e impervia.
Il dato delle elezioni sarde conferma il giudizio che avevo già espresso qualche settimana fa sul voto abruzzese. Il M5S è entrato in una crisi che sembra avvitarsi. Malgrado le grandi speranze suscitate dall’annuncio del reddito di cittadinanza, l’elettorato di due regioni meridionali boccia i cinque stelle. Una parte di quegli elettori diventa leghista, e riconosce a Matteo Salvini il ruolo di leader. Un’altra torna a non votare, o sceglie le civiche del centrosinistra. Ma soprattutto la reazione alle due sconfitte, consolatoria e giustificatoria, da parte di Luigi Di Maio, assomiglia molto a quella che Matteo Renzi e il suo gruppo ebbero quando arrivarono le prima batoste amministrative. Così la crisi del Movimento è destinata ad accentuarsi.
La Sardegna, in linea col Paese, si sposta significativamente a destra. Si configura più un destra-centro che non un centro-destra. La trazione leghista, attenuata nell’isola dal successo dei sardisti e forse dalla radicalità della protesta dei pastori, viene confermata, prima di tutto nell’ideologia che esprime, fortemente connotata da elementi xenofobi e reazionari.
Il centrosinistra ha un risultato molto superiore rispetto a quello delle politiche, grazie a Zedda e alle liste civiche. Ma difficilmente oggi può pensare di andare, se unito, oltre quel 30/33% che caratterizza il voto sardo come quello abruzzese.
In questo quadro si arriva, con grande fiacchezza, alle primarie del Partito Democratico, domenica prossima. Si fa fatica, pur riconoscendo alcune differenze importanti tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, ad appassionarsi alle ragioni della contesa, fondamentalmente radicate nella quantità di renzismo presente nei tre raggruppamenti che sostengono i candidati.
Comunque vadano le cose si impone un’iniziativa eccezionale. L’obiettivo per le elezioni europee dev’essere quello di dimostrare che c’è un argine che può contrastare e contrapporsi a quelle destre. Poi verrà il tempo di una strategia più articolata. Ma ora è indispensabile che attorno ad alcuni valori europeisti e democratici trovino un’intesa le componenti legate al lavoro, e in prospettiva a un’impostazione socialista, quelle ambientaliste e quelle liberali, che tuttavia mettono in discussione il liberismo senza freni e chiedono nuove regole e una nuova presenza pubblica, come fa Carlo Calenda. L’ideale sarebbe una grande lista, paritaria fra donne e uomini, con queste anime fra di loro equilibrate, con una grande presenza di cristiani sociali, vicini al magistero di Francesco. O, in alternativa, un manifesto comune con due o più liste che concorrano da posizioni diverse allo stesso comune obiettivo. Resistere, resistere, resistere.
Se anche i servizi di sicurezza dicono che la preoccupazione dei prossimi mesi è relativa al razzismo e alla xenofobia, le forze democratiche e progressiste non possono sottovalutare il tema, in nome delle proprie parziali ragioni: ragioni l’un contro l’altra schierate, che insieme fanno però un gigantesco torto.
Le elezioni amministrative ancor più si prestano a questa prospettiva. Ma, attenzione: siamo nell’epoca in cui il doppio turno vede i 5S propensi a votare per la destra al secondo turno. Sconsiglierei alle forze di sinistra di fare troppi calcoli sul primo turno. Marciare divisi per colpire uniti non funziona più granché.
E’ dentro questa battaglia che, in un tempo più lungo, occorre fare nascere la nuova forza socialista dei giovani. Millennial socialism. The resurgent left, come ha titolato l’Economist.
Chi incarna questa speranza in Italia? Chi ha capito che è qui che si costruisce il futuro?
Pietro Folena