L’Unità di domenica 10 luglio ha pubblicato questo mio articolo

I novant’anni di Aldo Tortorella sono per me -e credo per la generazione che partecipò alla grande esperienza collettiva della FGCI degli anni ‘80 e dei movimenti per la pace- l’occasione per un tributo speciale a questo straordinario dirigente del PCI e della sinistra.

La ragione di questo tributo è che Tortorella è stato, nella ricca galassia del gruppo dirigente dei comunisti italiani, un vero eterodosso, in qualche modo un “eretico” e un grande innovatore. A lui l’etichetta di “conservatore” che, con molta furia ideologica nuovista, è stata appiccicata a molti uomini politici che criticavano la direzione di marcia presa dalla sinistra dell’ultimo ventennio, non si addice in alcun modo. Né tanto meno quella di “dogmatico” o “ortodosso”. Non torno sulla parte della vita del Tortorella giovane, che ho conosciuto solo di riflesso: partigiano, studente e poi laureato in filosofia, giornalista, dirigente della Federazione Milanese del PCI, direttore dell’Unità dal 1970 al 1975, anni cruciali per l’Italia. Già in questo percorso, a partire dalla passione per la filosofia, c’è il segno di uno spirito libero, impegnato nella ricerca intellettuale e nell’azione politica. Mi preme sottolineare come Tortorella abbia contribuito in modo decisivo all’apertura del PCI alle nuove istanze e culture emerse nel 1968 e negli anni ‘70. La sua passione per le nuove culture femministe e per l’affermarsi del pensiero della differenza , il suo rapporto come responsabile culturale del PCI col mondo dell’Università, e anche con culture più critiche nei confronti dell’ortodossia di partito, la sua vicinanza politica e umana a Enrico Berlinguer, tutto ciò segnala come Tortorella sia stato una delle sorgenti che ha alimentato l’innovazione tentata dall’ultimo Berlinguer (di cui ho avuto modo di parlare su queste pagine nel recente dibattito aperto da Biagio de Giovanni). Quell’ultimo Berlinguer fu, al contrario di una certa vulgata, il più innovatore: un comunista che cercava di andare oltre l’esperienza storica del movimento operaio, addentrandosi nel mondo dei nuovi bisogni e dei nuovi diritti, a partire dalla soggettività femminile, di una nuova ricerca nel rapporto tra fede e politica, di un’idea di sobrietà e di austerità per cambiare modello di sviluppo; e, soprattutto, che aveva la netta convinzione che la sinistra si dovesse porre in termini nuovi, nell’era nucleare, la questione della pace e quella del “governo del mondo” -che poi abbiamo chiamato globalizzazione-. Dietro ognuno di questi temi, senza fare torto a Berlinguer che ebbe il merito, fra gli altri, di comprendere il valore di quel dirigente comunista atipico, si scorgono riflessioni, spunti, sollecitazioni proposte da Tortorella. Mi piace ricordare quanto Tortorella sia stato uno dei dirigenti più critici del mondo sovietico e del cosiddetto “socialismo reale”.

E così fu quando Berlinguer morì a Padova. Tortorella, insieme ad Ugo Pecchioli, sostennero Alessandro Natta nel tentativo di far vivere quel patrimonio berlingueriano nel nuovo contesto apertosi dopo la sua prematura scomparsa, nel quale lo si voleva mettere apertamente in discussione. Tortorella aiutò Marco Fumagalli, in quei mesi, e poi chi scrive negli anni successivi, a costruire quella che venne chiamata la “nuova FGCI”, e a muoversi lungo quella strada culturale. Non conservatori o ortodossi, e neppure nuovisti che rinnegano il passato della sinistra. Ma innovatori, talvolta un po’ naif, che dal pacifismo al referendum contro il nucleare, dai diritti dei gay a quelli dei migranti, scrivevano le prime pagine dell’agenda di una nuova sinistra.

Poi venne l’89, e le nostre strade si divisero. Tuttavia voglio sottolineare, come si percepisce con chiarezza in tutti gli scritti e gli interventi di Tortorella negli anni successivi, che la sua preoccupazione non era relativa a una presunta “purezza” ideologica che era stata messa in discussione dalla svolta della Bolognina: ma al modo in cui si realizzava quel cambiamento, tale da dare l’idea di una cesura netta col passato, in ragione del fatto che quello che era stato il PCI doveva rinnegare, o vergognarsi della sua storia. Certo. Come tanti altri giovani che quella svolta sostennero, alla luce della torsione che negli anni ha preso quel processo -fino a sposare, nella seconda metà degli anni 90, una visione enfatica della globalizzazione e a non rendersi conto dei disastri che il liberismo, anche temperato, e poi la guerra, soprattutto dopo le Torri Gemelle, avrebbero potuto produrre-, io ho riflettuto su quanto sia mancata nella cultura politica della nuova sinistra che si intendeva costruire la visione “critica” della società sostenuta da Tortorella e da altri dirigenti prossimi a lui (penso a Giuseppe Chiarante, in particolare). Così come penso che a sinistra del PDS-DS, e poi dello stesso PD, sia stato molto difficile, e lo rimanga, immaginare una sinistra non malata di settarismo e di minoritarismo, senza popolo.

Sicuramente l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, fondata nel 1998 insieme a Chiarante, è diventata un centro di riflessione politico-culturale verso quel ripensamento dei fondamenti e del programma della sinistra che è stata il cruccio fondamentale di Tortorella.

Tortorella avrebbe meritato -lui che scelse volontariamente di lasciare l’attività parlamentare nel 1994- un riconoscimento istituzionale e “pubblico” più importante negli ultimi vent’anni. Ma il suo carattere schivo, il suo rigore intellettuale e morale -direi intransigente- e il suo rifiuto di ogni protagonismo personale -Tortorella appartiene alla schiera di quei dirigenti che chiamano gli interlocutori per cognome- lo hanno collocato in una posizione del tutto originale.

Tortorella è sempre lì, a sostenere ogni reale sforzo di rinnovamento della sinistra. Con un garbo, una gentilezza, un’umanità che sembrano molto lontane dalle volgarità di tanta politica quotidiana.

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