Archivio per novembre 2012
Non penso sinceramente che chi come me ha votato Pierluigi Bersani possa dormire questa settimana sonni tranquilli. L’esito del ballottaggio di domenica 2 dicembre è tutt’altro che scontato. Non solo perché, come i ballottaggi ci insegnano anche alle elezioni comunali, è un voto nuovo, e in un certo senso ha ragione Matteo Renzi quando dice che si riparte da zero. Né solo perché i sostenitori del Sindaco di Firenze hanno una febbre addosso che sinceramente non mi pare che noi abbiamo. Diciamo la verità: il voto a Bersani è più razionale, meno passionale, anche più disincantato, guardando alla scarsa qualità della politica di oggi.
Vorrei fare due osservazioni che non ho visto in rilievo nei commenti di questi giorni. La prima è che, contrariamente a tutte le previsioni di tanti sondaggisti, politologi e esperti, il voto delle grandi città, più di opinione, meno organizzato, ha premiato il segretario del Partito Democratico, se si esclude ovviamente Firenze. Ci avevano spiegato che se aumentavano i votanti, e se ci si allontanava da una cerchia militante, Renzi avrebbe avuto la meglio. Non è stato così. E forse qualche seggio in più nelle realtà urbane non avrebbe favorito il giovane sfidante. La seconda è che la forza di Renzi è la contestazione dell’ establishment di potere, anche locale. In Toscana, in Umbria, nelle Marche, dove i vertici delle Regioni, gran parte dei Presidenti di Provincia -tra cui molti dei brillanti T-Q (i trenta-quarantenni che si erano proposti l’assalto al cielo)- e la stragrande maggioranza dei sindaci si erano schierati con Bersani, vince o addirittura stravince Renzi. E questo vale anche in altre Regioni: un voto di rottura con una struttura e un modo di essere che a una parte importante di iscritti, di elettori e di militanti appare, spesso non a torto, insopportabile.
Certo. Matteo Renzi ha portato e porta anche voti moderati e di centro-destra. Ma non si può banalizzare e ridurre a questo il suo consenso. Raccoglie un sentimento diffuso, che avrebbe dovuto trovare risposta prima in un grande Congresso democratico del Partito, fatto qualche mese fa -come chi scrive aveva proposto- volto a smantellare le cordate, le correnti personali, le insopportabili appartenenze obbligate, fino ai circoli territoriali, a un sistema a canne d’organo. Attorno a Renzi già si forma un nuovo sistema di correnti personali: non si può sperare che da lì possa nascere una nuova idea di politica partecipata e condivisa.
Ma ora è su questo punto che si fonda l’accelerazione che Renzi può imprimere in questi giorni. E, vista la sua campagna comunicativa, i suoi consiglieri e i suoi sostenitori così facoltosi, è facile immaginare che è stata scientificamente programmata per gli ultimi giorni un’ondata altissima di sostegno per lui.
Non conviene quindi avere troppa boria, dalle parti di Bersani. Bisogna giocare bene alcune carte. Quelle del lavoro -con l’impegno di Susanna Camusso e della CGIL che è decisivo, come sanno bene i sostenitori di Renzi, che perciò protestano- e della moralità, di cui giustamente il segretario del Pd parla. Quelle di un nuovo Partito Democratico più largo, che riunisca tutto il campo del popolo delle primarie, che questo vuole. Quella del no al Monti-bis, che una vittoria di Renzi, di fronte alla sua palese impreparazione a governare l’Italia, renderebbe invece molto probabile.
Bisogna allora che Pierluigi Bersani, davanti a un boccale di birra, da solo -senza una corte di adulatori intorno- immagini una mossa del cavallo, in grado di parlare all’elettorato che ha votato Renzi per protesta, e al quale va detto semplicemente: “ho capito, con questa farina non facciamo una gran polenta: la politica cambierà modo di essere”.
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Ho partecipato anch’io agli “Stati Generali della Cultura”, convocati dal Sole24 ore sulla base del Manifesto pubblicato qualche mese addietro. E’ stato dato ampio risalto al clima di protesta e di rabbia che attraversava la vastissima platea del Teatro Eliseo, e al modo intelligente e aperto con cui Giorgio Napolitano -sulla base di un’antica esperienza politica-, a differenza dagli esponenti del Governo che avevano parlato tra le contestazioni, ha saputo interloquire con la sala.
Mi permetto, da operatore culturale, di fare un’osservazione agli organizzatori e di esprimere un’opinione sui contenuti. Se pomposamente chiami un grande convegno sulla cultura “Stati Generali” non puoi non porti il problema di far parlare il lavoro della cultura. E cioè un vastissimo mondo fatto oggi di precariato e di incertezza, nel settore privato e in quello pubblico, o di imprese e associazioni no-profit che subiscono tragicamente le conseguenze dei tagli in atto. Non basta la parola alla coraggiosa Ilaria Capua, la ricercatrice che aveva minacciato di andare all’estero. Né si può pensare che un’organizzazione meritoria come il FAI e la sua presidente, Ilaria Borletti Buitoni, rappresentino il mondo privato-sociale, il quale non ha né i mezzi né l’appeal nell’universo dei ricchi e dei signori che ha questa realtà. Il sindacato non aveva niente da dire? E le associazioni dei lavoratori della cultura, fino a quelle connesse al mondo del precariato e del lavoro giovanile, non avrebbero potuto esprimere un importante punto di vista?
Se il punto di vista del lavoro nella cultura all’Eliseo non c’era, non è un caso. Allora anch’io saluto la sensibilità di chi si è messo in movimento. Consiglierei però, per il prossimo futuro, anche più umiltà, e maggiore consapevolezza del disagio enorme, fino alla percezione di una vera e propria assenza di futuro, che coinvolge migliaia e migliaia di singoli, di imprese e di associazioni che operano in questo campo.
Voglio poi aggiungere che non basta più la denuncia sul disinteresse di chi ha le leve del potere in mano. Ne ho scritto qualche tempo fa su questo blog e sull’Unità. Aggiungo che anche nel dibattito tra i candidati del centrosinistra alle primarie la cultura era la Cenerentola della discussione.
Il tema è se si fa la scelta della cultura, e quella della green economy, come volano di un altro sviluppo. L’assemblea del Sole24 ore ha messo l’accento sui dati negativi : a partire dalla perdita di posizioni dell’Italia negli ultimi cento anni in questo campo. Io metto l’accento sugli aspetti positivi: la forza di quel fattore 21 -per un’euro pubblico investito nella cultura se ne generano 21 privati-, unico al mondo. Doppio rispetto a quello della Francia che, investendo quattro volte di più di quello che facciamo noi, oggi ha un Pil della cultura e un Pil del Turismo doppi rispetto a quelli italiani. L’Italia può diventare potenza culturale mondiale, e le sue città d’arte -a partire da Roma- rilanciare la propria universalità, se ci mettiamo in testa di costruire una politica industriale della cultura, uno sviluppo fondato sulla cultura e sulla sostenibilità.
Pensiamo banalmente: cinquecento milioni l’anno in più per la cultura genererebbero, nella prossima legislatura, il raddoppio del Pil della cultura, da 40 a 80 miliardi. Si tratta di avere le idee chiare su cosa fare, con quali strumenti e con quali procedure. Non ripeto qui alcune proposte operative, a partire da un nuovo ruolo di Arcus, che ho già fatto.
E’ giunto il tempo di rimboccarsi le maniche, superando la lamentazione e il disfattismo. Possiamo vedere risultati in tempi molto brevi.
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Ciascuno ha le sue opinioni, sul confronto tv, su Sky, tra i cinque candidati alle primarie del centrosinistra. La mia è nota, ed esce confermata. Solo Pierluigi Bersani può incarnare una concreta speranza di cambiamento, puir riconoscendo le tante verità, alcune più superficiali e altre più profonde, degli altri quattro candidati.
Ma il punto non è questo. Coltivo la speranza che questo dibattito e la partecipazione alle primarie del 25 novembre abbiano dimensioni tali da travolgere il GPTT, il Grande Partito Trasversale dei Tecnici. La manovra, i cui rischi avevamo segnalato da mesi -ragion per cui sarebbe stato salutare per l’Italia votare in questo autunno-, è oramai diventata una strategia aperta. Pierferdinando Casini, Angiolino Alfano, Roberto Maroni -quest’ultimo ritagliandosi il comodo ruolo di oppositore dei tecnici- lavorano col sostegno di tanta parte dei media, dei poteri economici e finanziari e di ambienti nazionali, perché, con la legge elettorale, sia sottratta al PD e ai suoi alleati la possibile maggioranza (perché no, anche allargata ai moderati) ; perché in ogni caso non ci sia una maggioranza politica alle elezioni; e perché si imponga la prosecuzione innaturale (magari sotto la minaccia di nuove impennate dello spread) di un governo tecnico, presieduto da Mario Monti. Monti stesso rompe gli indugi e sceglie la linea più insidiosa: dice di avere più consenso dei partiti (leggi: del Partito Democratico), rifiuta di candidarsi alle elezioni che sono in democrazia l’unico misuratore del consenso, e infine conclude dicendo che se i partiti (leggi: il Partito Democratico) non ce la fanno, è disponibile. Si sacrifica a governare senza farsi eleggere dal popolo!
Ci aspettiamo dal Quirinale , che ha avuto il grande merito di impedire lo sprofondamento del Paese lo scorso anno, e di gestire in modo indolore la fuoriuscita di Silvio Berlusconi, parole chiare su questo punto. Nelle ultime settimane in troppi -dall’area centrista, ai moderati del PD, agli ambienti più vicini al Presidente del Consiglio- hanno accreditato l’idea che Giorgio Napolitano sia ostile a un Governo politico, magari guidato da Pierluigi Bersani, e che sia favorevole a un Monti-bis. Conosciamo troppo bene l’esperienza, l’equilibrio e il senso delle istituzioni del Presidente della Repubblica per sapere che si tratta di tentativi goffi di forzare la mano. Ma proprio per questo, con la stessa nettezza con cui Napolitano ha difeso principi costituzionali, oggi dal Quirinale, rispetto all’offensiva volta a impedire la vittoria del centro-sinistra e un Governo politico, ci si aspetta una decisa difesa delle prerogative degli elettori, di quelle del Parlamento e del ruolo di una politica che sceglie di rinnovarsi, anche attraverso le primarie.
Ecco perché spero che, dopo il dibattito tv fra i candidati, scatti nell’opinione pubblica democratica una molla per sbarrare la strada alla vera anti-politica, che non è quella del comico genovese, ma è quella del GPTT. Iscriversi alle primarie e andare a votare in modo massiccio è un formidabile antidoto democratico.
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E ora, tutti obamiani! Senza limiti politici e ideologici, rottamatori, rottamandi e rottamati, tutti riscoprono l’ammirazione per Barack Obama. Anzi: la ricerca dell’Obama de noantri.
Eppure solo tre settimane fa, come in questo blog avevo commentato, si erano sprecati fiumi di parole, nell’inguaribile provincialismo della politica e del giornalismo nostrano, sulla fine di Obama, dopo il primo duello tv, e sul disincanto di quella coalizione di nuovi elettori (nuovi per età, per genere, per etnia) che quattro anni fa decretò il trionfo del primo Presidente afro-americano della storia degli USA. In questa bolla mediatico-politica, alimentata da quegli ambienti di Wall Street e dei grandi poteri finanziari ostili ad Obama, e subito rilanciata senza criticità alcuna dai nostri media e da molti nostri osservatori politici, si è arrivati a dipingere il voto con tinte di incertezza clamorosamente smentite dall’esito elettorale. I quotidiani principali stampati la notte scorsa, a spoglio appena iniziato, talmente persuasi di questo schema, ci parlavano di una incertezza fino all’ultimo e di una possibile vittoria al cardiopalma di Obama.
Due milioni di voti nel voto popolare, e 62 grandi elettori sopra la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente, raccontano di una vittoria assai più larga di queste previsioni. Ricordiamo, senza scomodare una storia più lontana, elezioni assai più incerte di quella del 6 novembre 2012.
Mi colpisce in particolare come un uomo attento e grande conoscitore degli USA, come Vittorio Zucconi di Repubblica, abbia continuato fino all’ultimo nel dipingere una situazione di difficoltà per Obama e un Paese irrimediabilmente spaccato. A proposito di difficoltà, si tratta delle stesse che ha dovuto affrontare in questi anni, con una maggioranza del Congresso repubblicana. Non solo non c’è stata l’annunciata débacle dei democratici al Senato, ma lo stesso Partito di Obama appare più reattivo rispetto all’ultimo biennio. Quanto alla spaccatura, non è una novità. Oggi, a differenza dal passato, è una spaccatura che racconta della capacità dei democratici di guardare al futuro, aprendosi a neri, latinos, immigrati, e di parlare e coinvolgere le donne; e della resistenza dei repubblicani che continuano, sotto l’influenza dei Tea party a raccontarsi come una forza bianca e cristiana. C’è nel voto di Obama un connotato operaio e popolare che, unito all’avvio concreto della riforma sanitaria, avvicina la sua esperienza a quella delle sinistre e dei progressisti europei. La competizione tra Obama e Mitt Romney non è stata solo tra due persone così divrese, ma tra due idee di società alternative, che hanno suscitato passioni e entusiasmo.
Quello che esce a pezzi, in Italia, è il nuovismo liberal-liberista, che oggi nel centrosinistra viene riproposto da Matteo Renzi. I democratici americani dei prossimi anni dovranno puntare tutte le loro carte sul lavoro, sul welfare, sull’educazione, sull’integrazione, non sulle privatizzazioni, o sulla flessibilità selvaggia. Oggi americanismo torna a voler dire, come all’epoca di F.D.Roosevelt, modello sociale.
Insomma: vorremmo un po’ meno di chiacchiere obamiane fuori tempo massimo, e un po’ più di consapevolezza -quella che ha avuto François Hollande al momento dell’elezione- dei compiti della sinistra europea in questa crisi: chi siamo, chi dobbiamo rappresentare, con quale visione del mondo.
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