Archivio per ottobre 2012
“L’umanità può vivere – scriveva Fiodor Dostoevskij – senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui”. Gli fa eco il pittore Georges Braque: “L’arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura”.
Queste citazioni furono fatte da Papa Benedetto XVI° il 21 novembre 2009 quando, nella Cappella Sistina, sotto gli affreschi di Michelangelo, volle incontrare gli artisti. Più di due secoli prima un quattordicenne Wolfgang Amadeus Mozart, ispirato dalla Sistina, riuscì nell’impresa di trascrivere interamente a memoria dopo solo due ascolti il Miserere di Gregorio Allegri, di proprietà talmente esclusiva della Cappella Pontificia, da intimare la scomunica a chiunque se ne fosse impossessato fuori dal Vaticano. E un grandissimo e compianto artista come Lucio Dalla, che amava l’arte del Rinascimento, a partire dallo scultore bolognese Amico Aspertini, cui dedicò la canzone Amico, aveva espresso la volontà di comporre una grande opera musicale dedicata a Michelangelo.
Da lì, da questo mistero dell’arte -vero e proprio tormento nella vita di Michelangelo Buonarroti-, parte la mostra che oggi inauguriamo. L’esperienza della Sistina turba, come scriveva Braque, come poche altre esperienze al mondo. Qui troverete i disegni preparatori della Volta, riferiti agli affreschi, e quell’unico, preziosissimo disegno, di poco meno di trent’anni dopo il 1512, che prepara il drammatico e potente Giudizio Universale. Antonio Paolucci e Pina Ragionieri ci parleranno della straordinaria impresa, tra il 1508 e il 1512, compiuta da Michelangelo, ai limiti della resistenza fisica e psicologica, e della qualità incredibile dei disegni autografi qui esposti, e conservati a Casa Buonarroti.
Quegli anni, grazie alla lungimiranza di Papa Giulio II°, che a qualche metro dalla Sistina faceva lavorare il giovanissimo Raffaello ad alcuni dei suoi più grandi capolavori, hanno cambiato la storia dell’arte per sempre.
Voglio ringraziare la Camera dei Deputati e in particolare il Presidente Gianfranco Fini per la sensibilità dimostrata. L’evento principale del 500° -era proprio il 31 ottobre del 1512- si svolge qui, con un omaggio della Repubblica italiana all’opera straordinaria compiuta da un artista che, mi piace ricordarlo, lavorò per tanti papi ma fu un fervente repubblicano -nelle due esperienze fiorentine, finite tragicamente-, indignato contro le prepotenze e le soverchierie di ogni Potere. Nella seconda parte della sua vita, questo sentimento assunse le forme di un’”eresia” rispetto alla Chiesa dei privilegi, delle ricchezze e della vendita delle indulgenze, proprio quando nell’Europa cresceva lo spirito della Riforma. Di “opera della crisi” ha scritto Giulio Carlo Argan, a proposito del Giudizio Universale. Giuseppe Ungaretti di fronte alla Sistina si domanda: «C’è forse un’arte più sconvolta, più travolta dalla disperata speranza di quella di Michelangelo?».
“Una funzione essenziale della vera bellezza… consiste nel comunicare all’uomo una salutare “scossa”, che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all’accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce” dice Benedetto XVI° agli artisti nella Sistina.
Ecco perché, per ragioni morali, prima di tutto, investire e credere nella bellezza, in un concorso tra pubblico e privato, è essenziale. Se la Camera ha messo a disposizione questi spazi magnifici, e carichi di storia, questa mostra ad ingresso libero, com’è doveroso in una sede istituzionale, si è potuta fare grazie alla Fondazione Casa Buonarroti, di cui saluto il Presidente Eugenio Giani, al mecenatismo di Camera di Commercio di Roma, di Enel, di Ferrovie dello Stato, e col patrocinio della Regione Lazio e della Provincia di Roma.
E’ in questo concorso la chiave di volta per cambiare passo nel nostro Paese nel settore della cultura. Si è soliti concludere i discorsi con la retorica sulla cultura come volano di crescita. MetaMorfosi sta provando a costruire delle strade concrete, accompagnando nel tempo importanti istituzioni culturali.
Molte fonti concordano nell’indicare in Italia in poco meno di 40 miliardi di euro il PIL della cultura, a fronte di una spesa pubblica di 1 miliardo e ottocentomila euro, con quasi 500000 occupati. Per ogni euro pubblico investito se ne generano più di 21. In Francia, a fronte di un PIL cultura di 74 miliardi, la spesa pubblica in cultura è di 8 miliardi e mezzo: per ogni euro pubblico se ne generano meno della metà rispetto all’Italia, e cioè circa 9. Dati analoghi si registrano in Germania e in Gran Bretagna. La forza di un grande discorso di industria culturale in Italia sta in quel numero magico: 21. 1 euro pubblico produce altri 20 euro privati. Del resto siamo il Paese al mondo col maggior numero di siti Unesco, 44, e in cui è concentrata la maggioranza del patrimonio culturale del mondo. Ciò che occorre è, malgrado la crisi e per uscire dalla recessione, un aumento degli investimenti pubblici e privati in cultura, e l’individuazione di nuovi strumenti che facciano leva sul fisco, sul mecenatismo e sul valore aggiunto dei diritti di immagine dei nostri beni culturali, al fine di promuovere lavoro, impresa, occupazione.
Abbiamo voluto, in questo senso accompagnare quest’esposizione con la produzione di un docu-film, Il cuore e la pietra, che racconta partendo dai documenti autografi e dai disegni un Michelangelo privato in onda domani sera: una sorta di mostra-movie, una produzione realizzata insieme a Sky, che qui saluto, che dimostra concretamente come un grande gruppo internazionale possa, con l’apertura domani del nuovo canale Sky arte, concorrere a una nuova stagione di industria culturale.
«Le favole del mondo mi hanno tolto / il tempo dato a contemplare Iddio», scriveva in un celebre sonetto Michelangelo. Noi tutti che siamo così presi dalle “favole del mondo” abbiamo il dovere, per le nostre responsabilità, di permettere che l’uomo, e la donna abbiano finalmente tempo -e cioè disponibilità della ragione e del cuore- per “contemplare”.
Questo è il testo del mio intervento alla Camera in occasione dell’inaugurazione della mostra “Michelangelo e la Cappella Sistina, nei disegni autografi della Casa Buonarroti” aperta oggi alla Camera dei Deputati-Palazzo San Macuto-Sala del Refettorio, fino al 7 dicembre 2012
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La politica nazionale, anche quella della sinistra, ha avuto sempre difficoltà a interpretare la situazione siciliana. Spesso la sinistra storica ha oscillato tra un realismo consociativo e un’equazione semplificata “Sicilia=mafia”.
Palmiro Togliatti, nel dopoguerra, invece parlava giustamente della Sicilia come più di una Regione e meno di una Nazione. E’ stato uno dei pochi leader a confrontarsi col problema siciliano. Anche vent’anni fa ci fu un grande limite del PCI-PDS nel comprendere ciò che si stava muovendo, e nel dare una voce piena al grande moto popolare, profondo e diffuso, che investì il cuore della Sicilia dopo le stragi del 92.
La splendida vittoria di Rosario Crocetta, che trova le sue radici proprio in quel grande moto, e la drammatica disaffezione ai partiti, che investe anche il PD, sono i due dati evidenti di questo voto.
La vittoria di Crocetta non può essere letta -come vedo in tanti commenti nazionali in queste ore- solo alla luce di uno schema politico algido, e cioè l’alleanza tra progressisti e moderati. Dubito, per come conosco la Sicilia, che un candidato dell’UDC, o che uno del PD espressione delle sue correnti, avrebbe potuto festeggiare la vittoria.
Che un uomo che viene dalla storia del PCI e che con grande coraggio ha preso la guida della difficilissima città di Gela, combattendo corpo a corpo non la mafia delle fiction tv ma quella che ogni giorno entra nelle istituzioni, nelle imprese e condiziona la società, venga eletto direttamente Presidente della Regione Siciliana, per la prima volta nella storia di quest’istituzione, è una rottura storica. Come Crocetta ha detto, “una rivoluzione”. Non è un mistero che quattro mesi fa i gruppi dirigenti regionali e nazionali del PD non vedessero di buon occhio la sua candidatura, nata con un vero e proprio movimento di base, di molti circoli territoriali e di tanti comitati che si riconoscevano in lui.
Questa vittoria avviene, certamente, perché si è scomposto e disarticolato il vastissimo blocco sociale e politico che, dalla caduta della DC, aveva per vent’anni avuto un’egemonia sull’Isola. In questa scomposizione, frutto della crisi del berlusconismo, ha pesato anche in positivo il controverso sostegno che il PD siciliano, in una sua parte, ha dato all’ultimo Governo di Raffaele Lombardo. E’ stata un’operazione per molti versi azzardata, ma che ha accentuato la divaricazione all’interno del vecchio centro-destra. Così come è interessante, contrariamente alle previsioni che raccontavano dei rischi di un massiccio voto disgiunto fra liste e candidati a presidente, il voto dato dall’elettorato dell’UDC a Crocetta. E’ un voto che racconta come, in una parte dell’elettorato, l’UDC di oggi sia vista come una forza che, dopo anni di opposizione a Berlusconi, è un credibile alleato dei democratici e dei progressisti.
D’altra parte, alla sinistra del PD, non è stata compresa l’ostilità nei confronti di una personalità moralmente credibile come Rosario Crocetta, né una rottura a sinistra.
Ma la disaffezione ai partiti, e anche al PD è un elemento che non può essere dimenticato nell’euforia per il successo di Crocetta. Non solo perché all’Assemblea Regionale la coalizione che lo ha eletto non ha la maggioranza (e il neo-Presidente ha affrontato bene la questione, dicendo che cercherà il consenso su ogni provvedimento, altrimenti si tornerà al voto). Ma perché nell’elettorato siciliano Crocetta rappresenta circa il 15% degli elettori. L’astensionismo e il voto ai grillini segnalano la vera emergenza del Paese: la qualità della politica, oggi drammaticamente degradata. E una forza che si chiama “democratica” non può non porsi in primis questo problema. Quello che non funziona è una struttura della politica a canne d’organo, in cui ogni “potente” controlla e blocca pezzi di partito. Poco importa che chi lo fa sia un pluri-eletto o un rampante di nuova generazione.
A Crocetta e a Pierluigi Bersani si consegnano quindi due grandi questioni. La prima è la condizione sociale, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso disperata: ricostruire fiducia e dare energia a quanto c’è di positivo, con provvedimenti anche esemplari, è essenziale. La seconda è la questione democratica, rompendo le logiche delle sudditanze e dei potentati e investendo sulla voglia di contare che, anche attraverso il voto al MCS, si è espressa domenica scorsa.
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Si è soliti concludere i discorsi, soprattutto a sinistra, con la retorica sulla cultura come volano di crescita. La mia esperienza alla guida di MetaMorfosi -che in pochi anni è diventata protagonista di importanti attività di valorizzazione e di sostegno a istituzioni culturali preziose (cito, fra le altre, Casa Buonarroti, il Museo Civico di Bassano del Grappa, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, il Gabinetto delle Stampe e dei Disegni degli Uffizi)- è che il concorso di un privato, nel nostro caso un privato-sociale, al pubblico, avviene in una logica assolutamente neo-keynesiana.
Lo schema ideologico della lunga stagione liberista, fatto proprio largamente anche dal governo presieduto da Mario Monti, privato contro pubblico, è del tutto recessivo. Per ciò che riguarda la cultura, proprio perché si ha a che fare con un bene che non si consuma (anche se va conservato e tutelato), il valore aggiunto di ogni euro investito si moltiplica.
Parliamo di cifre concrete. Molte fonti concordano nell’indicare in Italia in poco meno di 40 miliardi di euro il PIL della cultura, a fronte di una spesa pubblica di 1 miliardo e ottocentomila euro, con quasi 500000 occupati. Alla cifra di 40 miliardi si potrebbero anche aggiungere, ma non lo faccio, le voci relative al turismo e all’enogastronomia. Ciò che interessa fotografare è il moltiplicatore di spesa in Italia: per ogni euro pubblico investito se ne generano più di 21. In Francia, a fronte di un PIL cultura di 74 miliardi, la spesa pubblica in cultura è di 8 miliardi e mezzo: per ogni euro pubblico se ne generano meno della metà rispetto all’Italia, e cioè circa 9. Dati analoghi si registrano in Germania e in Gran Bretagna, mentre in Spagna il moltiplicatore di spesa è di 5 euro.
La forza di un grande discorso di industria culturale in Italia sta in quel numero magico: 21. 1 euro pubblico produce altri 20 euro privati. Del resto siamo il Paese al mondo col maggior numero di siti Unesco.
Quando si parla di spending review, anziché pensare a un altro nome anglosassone per tagliare il settore pubblico, si dovrebbe pensare a come ottimizzare la spesa, rendendola tutta produttiva ed efficace (perché una parte di quei due miliardi pubblici non lo sono).
Immaginiamo il programma di un Governo Bersani -dico Bersani perché lo voto, ma sarebbe auspicabile, su questo punto, una visione condivisa-. Aumentare nella prossima legislatura, con una cura shock di un miliardo l’anno, la spesa in cultura. Il Pil cultura crescerebbe di venti miliardi circa l’anno, con duecentomila occupati in più. Nel 2018, alla fine del quinquennio, si potrebbe immaginare, con 7 miliardi di impegno pubblico per la cultura, un Pil di 140 miliardi (poco meno del 10% del Pil totale), con un milione e mezzo di occupati, a fronte di un Pil del settore metalmeccanico di 120 miliardi circa.
Si tratta di cifre teoriche. Bisogna saper cosa fare, avere degli strumenti che effettivamente generino l’indotto e moltiplichino le imprese culturali nel nostro Paese.
Suggerisco alcuni punti:
1) una grande enciclopedia digitale italiana, autorevolmente proposta in questi giorni, di tutti i beni culturali (monumenti, opere, musei, biblioteche, archivi, istituzioni culturali), come base dell’anagrafe della nuova industria culturale;
2) l’adozione, o l’affidamento di beni catalogati a privati che, sotto la guida delle istituzioni e e il controllo delle sovraintendenze, si facciano carico di restauri, valorizzazioni, esposizioni, gestioni, facendo del mecenatismo democratico la chiave di una nuova grande politica culturale;
3) la trasformazione di Arcus spa -che inopinatamente il Governo Monti voleva chiudere, e che ora invece sembra riconfermata- nello strumento pubblico, con criteri nuovi e trasparenti, di intervento nell’economia della cultura, mettendo insieme Stato, Regioni, Comuni e Fondazioni, per finanziare in quota-parte progetti e start-up culturali; penso a una sorta di grande IRI della cultura, che promuova impresa, occupazione e lavoro per moltiplicare la ricchezza prodotta in questo settore;
4) un nuovo regime fiscale per gli investimenti in cultura, a cominciare dalle liberalità e dalle donazioni, e un accordo col sistema bancario -a partire dal ruolo delle Fondazioni bancarie- che effettivamente favorisca l’intraprendenza culturale, specialmente quella giovanile;
5) sul versante delle entrate nelle casse pubbliche della cultura, la scelta di venti o trenta grandi brand culturali italiani (dal Colosseo a Michelangelo, dalla Torre di Pisa a Caravaggio), attorno ai quali costruire una politica di valorizzazione dei diritti di immagine, di merchandising culturale, di raccordo con industrie manifatturiere che vogliano collegare i loro prodotti alla cultura italiana, tanto apprezzata in tutto il mondo; i proventi di questi diritti potrebbero finanziare largamente una parte dell’intervento pubblico.
Si tratta di ipotesi, certamente da discutere. Quello che è certo, però, è che i numeri invitano a scommettere su questa partita. Anzi: a giocare il 21, numero magico. A condizione che non continuiamo a pensare che l’intervento pubblico è il male. I privati -e non solo, come MetaMorfosi, quelli che non hanno fini di lucro- hanno bisogno non di avere soldi da uno Stato indebitato, ma di operare dentro il quadro di una politica industriale della cultura.
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Viviamo in una stagione di paradossi. Nella stagione di un governo “tecnico” -per modo di dire, in realtà assolutamente politico-, nel quale un ministro “tecnico” nomina un politico in carica a presiedere il MAXXI, una delle più grandi istituzioni culturali del Paese, un “tecnico” vero, apprezzato e conosciuto nel mondo, Luciano Maiani, si dimette, dopo l’inaudita sentenza del Tribunale di L’Aquila, da Presidente della Commissione Grandi Rischi.
Di Maiani, fisico teorico, membro dell’Accademia dei Lincei, direttore del CERN -sotto la sua guida l’organizzazione europea per la ricerca nucleare ha compiuto un decisivo passo avanti, avviando le ricerche e gli esperimenti culminati in questi anni-, nominato dall’allora premier Romano Prodi a Presidente del CNR, fino al 2011, la destra italiana chiese la testa. Ricordiamo il sen.Franco Asciutti, del Pdl, che operò per bloccare la ratifica della sua nomina, visto che Maiani aveva sottoscritto l’appello di molti scienziati, promosso dal compianto “tecnico” Marcello Cini, scomparso in queste ore, contro la decisione del Rettore della Sapienza di affidare a Papa Ratzinger la prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico. E ricordiamo la sorprendente polemica della deputata Gabriella Carlucci sulla sua reputazione scientifica, per il lavoro svolto con un altro “tecnico”, il Premio Nobel Sheldon Glashow. Alla fine Maiani divenne comunque Presidente del CNR.
Laddove la destra italiana fallì, riesce invece il modesto collegio giudicante aquilano. La comunità scientifica internazionale, dalla Francia al Giappone, dagli USA alla Germania reagisce indignata per questa sentenza.
Com’è stato osservato, tutto in Italia finisce nel penale. Questa volta in modo grottesco. Anziché sanzionare le responsabilità politiche -del Governo di allora e della Protezione Civile di allora, vero e proprio centro di smistamento di favori e di appalti ad imprese amiche-, si colpiscono le responsabilit scientifiche. Parliamo, a proposito degli esperti della Commissione, di alcuni degli scienziati più prestigiosi al mondo.
Le dimissioni di Luciano Maiani da Presidente della Commissione di cui quegli scienziati facevano parte, sono un gesto forte, direi militante, e raccontano l’Italia di questo momento. Anche Maiani, per la sua età, va “rottamato”? La tecnica, e anche la “tecnica” del diritto -la giustizia- fanno politica, e la politica si maschera da tecnica, in versione televisiva o addirittura comica.
Il bisogno che la politica torni ad essere tale, con la P maiuscola, e che i “tecnici” -ma non sarebbe meglio chiamarli intellettuali, scienziati, uomini di cultura- possano dare il contributo del loro sapere al futuro dell’Italia è oggi un’emergenza vera. Forse la prima.
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Non mi succede più spesso di cercare le informazioni su Televideo. Siamo bombardati da notizie da ogni parte e questo canale di informazione, che quindici anni fa era fondamentale, appare un po’ obsoleto. Qual è stata la mia sopresa, poco dopo la mezzanotte di ieri, a pagina 125, di trovare una lunga dichiarazione di Matteo Renzi che terminava così: “ dopo quella dei leaders, oggi ci deve essere la rottamazione delle idee”.
Rottamazione delle idee? Mi aspettavo questa domenica mattina, di trovare su giornali e tg un grande rilievo a questa frase. Niente. Neppure sulle agenzie. Vorrei capire meglio.
Di quali idee si parla? Nelle frasi del portavoce Roberto Reggi si capisce bene -come del resto dagli editoriali dei grandi gruppi- che le idee da rottamare sono quelle di San Giovanni, ieri, quelle del socialismo, quella della storia della sinistra italiana.
Anch’io penso che bisogna rottamare delle idee. Quelle di Renzi. Quelle liberiste, o tardo-liberali. Quelle dei paradisi discali. Quelle della flessibilità come libertà. Quelle della finanza senza controllo. Quelle che, prima di Renzi, hanno affascinato anche altri leaders della sinistra, che per fortuna ora, in gran parte, hanno cambiato idea.
Il 25 novembre si dovrà discutere se rottamare il lungo ventennio del pensiero unico, o le uniche lo possono contrastare. Quelle dell’eguaglianza e del lavoro.
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Piazza San Giovanni e il movimento sindacale hanno una lunga storia comune. In epoche diverse generazioni di operai, di insegnanti, di donne e di giovani, attorno alle bandiere rosse e a quelle unitarie, hanno scritto pagine importanti della storia dell’Italia repubblicana. I treni speciali a Tiburtina e a Ostiense, gli autobus al limite urbano delle grandi vie consolari hanno scaricato fiumane di lavoratori, a volte molto arrabbiati, a volte più festosi che- dopo una notte passata in treno- attraversavano la capitale. Tanti, tantissimi hanno conosciuto la Roma di San Giovanni, prima di quella di San Pietro. Hanno visto per la prima volta la città eterna da quel punto prospettico, e hanno portato nei loro posti di lavoro e nei loro territori quell’esperienza. Ricordo, per tutte, la grande manifestazione dei metalmeccanici alla fine del 1977 -il PCI era entrato nella controversa fase dell’unità nazionale-, che spinse Enrico Berlinguer, dopo la rivolta giovanile di quell’anno, a assumere una posizione preoccupata. Ascoltò la voce operaia e, qualche mese dopo, con l’assassinio brigatista di Aldo Moro, si chiuse una fase politica. E ricordo il Berlinguer che sette anni dopo fu osannato dai lavoratori a San Giovanni dopo il taglio della scala mobile.
Qual è l’animo di chi in queste ore si appresta a salire sul treno, o lo farà domattina all’alba? Vorremmo essere nel cuore e nella testa delle centinaia di migliaia di partecipanti che sono annunciati. Non ci saranno cortei, ma una grande manifestazione che cerca di pensare positivo: di parlare della crisi e anche di ciò che nella crisi il lavoro riesce a fare. Certo: è un’altra epoca. Non solo perché non c’è Berlinguer, ma perché con la crisi che morde la vita di chi lavora, è cresciuta la crisi della democrazia. La sfiducia nella politica. La difficoltà a sentirsi rappresentati.
Chi oggi ha responsabilità politiche e si sente vicino alla manifestazione del 20 ottobre, deve prima di tutto avere grande umiltà. Sapere che c’è una grande opera da compiere di ricostruzione di una fiducia, direi di una grande comunità del lavoro. La CGIL ha il merito di porre, oltreché problemi concreti rispetto ad un Governo che ha disatteso gli impegni, e rispetto ai cambiamenti che in questa e soprattutto nella prossima legislatura si impongono -dalla protezione degli esodati agli interventi nelle situazioni di crisi, dal rispetto dell’ambiente dei grandi gruppi industriali a norme e soluzioni vere contro la precarietà, dalla difesa del risparmio di chi lavora alla lotta alla speculazione finanziaria, dalla Tobin Tax alla patrimoniale, e potremmo proseguire-, una grande questione alla società italiana. Dopo gli anni del trionfo della logica finanziaria, ora deve vincere il lavoro. L’Italia del lavoro. Bruno Trentin, in un’altra stagione, parlava di patto dei produttori.
Al Partito Democratico si chiede questo. Di esserci domani convintamente, e di fare di questa istanza -la rappresentanza del lavoro e un nuovo patto dei produttori- il cuore della propria proposta per l’Italia.
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Luca Leoni Orsenigo è un nome che non tutti ricordano. Era il deputato leghista che nei giorni di Tangentopoli sventolò il cappio per invocare la forca. A lui ho pensato quando ho visto il fantoccio di Massimo D’Alema spinto sotto le ruote del camper di Matteo Renzi. L’ideologia è la stessa. All’uomo del cappio, che non ha lasciato molte altre tracce del suo passaggio in Parlamento, quel gesto non l’aveva ordinato Umberto Bossi. Si trattava di un’espressione ruspante dell’ideologia del suo partito, sfuggita al controllo dell’Apprendista Stregone. Da Matteo Renzi in queste ore mi sarei aspettato una reazione ben diversa rispetto all’episodio di Empoli. Quell’episodio è il frutto avvelenato di una campagna rozza e indistinta che, anziché parlare di rinnovamento, invita all’odio e al linciaggio morale di alcuni esponenti politici. Renzi si dovrebbe fermare a riflettere, tra una cena organizzata dallo spregiudicato titolare del Fondo Algebris, Daniele Serra e uno show televisivo a Porta a Porta. Invece continua: è il turno di Rosi Bindi, e tizio o caio non possono fare i ministri.
Il Pd, e anche Pierluigi Bersani, hanno fatto alcuni errori nella gestione del rinnovamento. Si poteva fare prima e meglio, dando il senso di una lotta politica. Bill Clinton, non più eletto, indicato dal Sindaco di Firenze come modello, non ha certo rinunciato a svolgere una funzione politica, e nessuno si è sognato di chiederglielo.
D’Alema è stato schietto e chiaro, a Otto e Mezzo. Il tema è politico. Se una sinistra autonoma dai poteri forti possa governare il Paese. O se, invece, anche per colpa di una politica che si è chiusa e inaridita, dobbiamo affidare a banchieri, finanzieri, tecnici e poteri forti -che oggi usano il giocattolo Renzi finché serve-, il nostro destino di italiani.
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Dove sono tutti finiti in queste ore tutti i commentatori, anche progressisti, che in Italia in modo assai provinciale avevano già decretato la fine politica di Obama? Quest’uomo, fondamentalmente una persona per bene, è un eretico di questo tempo. Interpreta la crisi di civiltà del mondo con un sentimento sconosciuto allla politica contemporanea, e molto, molto raro in Italia. Il confronto della notte scorsa non è frutto di un caso.
Attendiamo autocritiche che già sappiamo non verranno.
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Quanto sarebbe stato salutare per l’Italia e per la democrazia, come chi scrive aveva sostenuto, votare per il rinnovo del Parlamento in questo autunno. Le vicende delle ultime settimane, infatti, raccontano del rischio insito in un prolungamento oltre ogni ragionevole misura di una situazione politica confusa, con un governo cosiddetto “tecnico” retto da una maggioranza parlamentare fatta di forze portatrici di idee alternative sul futuro dell’Italia.
La seconda Repubblica finisce con un’agonia troppo lunga, che può arrecare danni gravi alla salute della democrazia. Le vicende della Regione Lazio -travolta da Batman, col concorso di molti Superman dell’opposizione, e oggi alle prese con la pervicace ostinazione della dimissionaria Renata Polverini di spostare le elezioni regionali più avanti possibile, in barba alle disposizioni di legge- e quelle di queste ore della Regione Lombardia -travolta da un’infinità di scandali e da infiltrazioni criminali spaventose, e nella quale si consuma tutta la crisi della Lega Nord in salsa maroniana (un giorno dimissioni, un giorno rimpasto, il terzo voto in primavera)- parlano della irreversibile crisi del centro-destra, così come l’abbiamo conosciuto lungo un ventennio. Di milioni di voti senza rappresentanza.
D’altra parte che senso ha l’azione del Governo Monti ora? Abbiamo discusso, e contestato alcune delle scelte fatte nel momento della speculazione più grave ai danni dell’Italia. Ma sentir parlare in questi giorni di riforma costituzionale del titolo V° -quella, per intenderci, del federalismo, riforma giusta e necessaria in principio-, quando con tutta evidenza mancano non solo le volontà politiche ma anche i tempi tecnici per realizzarla è davvero troppo. Si stanno perdendo mesi preziosi.
E’ inutile, tuttavia, piangere sul latte versato. Qualche luce viene finalmente, dopo la positiva Assemblea del Pd, dalla convocazione delle primarie del centrosinistra per il 25 novembre prossimo, sulla base di una piattaforma che non è in continuità con l’agenda Monti. Pd, Sel, Psi e tante forze sociali e civili possono dare voce a milioni di cittadini, chiamati a scegliere in una competizione incerta non solo il leader ma anche il programma di governo.
Qui non basta più la retorica del rinnovamento. Il tema è quale rinnovamento, di contenuti e di persone. I fautori di un Monti-bis, o di una mera continuità con l’attuale esperienza, dentro e fuori dal Pd, sono in difficoltà. E se Walter Veltroni – che di questa continuità è un sostenitore- oggi compie una scelta chiara, quella di non ricandidarsi in Parlamento, è anche per marcare una differenza politica. E’ Matteo Renzi, invece, che non potrà più accontentarsi di chiedere che si facciano da parte i capi storici del Pd. Non solo perché già in molti hanno fatto sapere di non volersi candidare, non sulla base dello schieramento di un plotone di esecuzione ma di una scelta del Partito, a partire da Massimo D’Alema. Ma perché Renzi dovrà far sapere qualcosa di più – senza liquidare le novità di “sinistra” della carta di intenti alla base delle primarie- sull’agenda Monti, sul lavoro, sui diritti, sull’ambiente.
Il valore del 25 novembre va al di là della scelta di una parte politica. Se entrano in gioco le persone in carne ed ossa, che vivono la crisi e le difficoltà del presente, può nascere una nuova e, soprattutto, buona politica.
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“È strano che si cambino le regole in corsa, non capisco perchè oggi si debba cambiare”. Matteo Renzi a Reggio Calabria. Oggi. Francamente avevo capito che le regole si cambiavano in corsa per permettere a Matteo Renzi di partecipare alle primarie. Stranezze della logica di una politica senza logica.
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