Archivio per ottobre 2011
Da Sardegna Quotidiano di oggi
Anche il più fiero oppositore di Matteo “Fidel” Renzi non può non riconoscergli una capacità istrionica e un carisma fuori dal comune. Il Sindaco di Firenze è capace, con una battuta, di far dimenticare a tutti il suo essere piena espressione del ceto politico che critica. Di aver anzi usato l’istituzione per eccellenza sinonimo di spreco e di inutilità -la Provincia, di cui a Firenze è stato Presidente- come trampolino di lancio per conquistare il Comune, a sua volta utilizzato per lanciare, al di là delle smentite neanche troppo convinte, la sua candidatura a leadership. Ciò che colpisce, piuttosto, è l’incantesimo quasi messianico che si è creato tra Renzi e i duemila della Lepolda, e fuori di lì, con una parte importante del Paese, anche fuori dal Partito Democratico. Si tratta di una fidelizzazione pressocché assoluta, che senza dubbio richiama quella che in modo magico si creò, all’inizio, tra Silvio Berlusconi e la società italiana più profonda. (continua…)
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Da Lettera43 di oggi
Leggo ieri una dichiarazione del deputato del Partito Democratico, Giorgio Merlo, a commento della due giorni bolognese organizzata da Pippo Civati e da Deborah Serracchiani, secondo cui ha contato nel partito sedici correnti. Leggo oggi una dichiarazione del senatore del Pd, Silvio Sircana, già sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di Romano Prodi, secondo cui le correnti sono diciassette. Una nuova forse è nata nella notte.
Qui c’è la rappresentazione plastica della crisi di sistema. Proprio nelle ore in cui il Governo vive sulle pensioni il momento più difficile, proprio quando Nicolas Sarkozy -rispolverando uno sciovinismo anti-italiano- irride, in compagnia di Angela Merkel, l’Italia, proprio nelle ore in cui Giorgio Napolitano cerca una quasi impossibile via d’uscita, il Partito Democratico manifesta un impazzimento interno del quale si capisce una cosa sola: la mancanza di consapevolezza della drammaticità del momento, accompagnata da una fragilità strutturale che nessun partito della Prima Repubblica aveva avuto. Se, all’esterno del Pd proliferano populismi e radicalismi confusi, e se una parte della protesta rischia di riconoscersi nelle frange più violente, è anche perché manca un baricentro. Quella famosa forza capace di orientare l’intera politica e di dare al Paese una speranza.
Non intendo far torto alla legittimità delle posizioni di ognuna delle componenti. Né, avendone vissuto la tragica carenza di democrazia, sono un nostalgico del centralismo democratico. Ma così non si va da nessuna parte. (continua…)
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Da Sardegna Quotidiano di venerdi 21 ottobre 2011
La morte di Muammar Gheddafi segna la conclusione, con un evento tragico, amplificato dallo show televisivo, della rivoluzione libica. La nostra cultura ci fa inorridire di fronte ad ogni morte violenta. E, come ha chiesto Marco Pannella, sarà necessario che le nuove autorità libiche che devono costruire una vera democrazia, e non un nuovo regime fatto di vendette e brutalità, accertino e chiariscano come è morto Gheddafi.
Ma rimane il fatto che un popolo a cui nessuno, nel febbraio scorso, dava più credito di tanto, e grazie al sostegno dell’ONU e della Nato, ha liberato la propria patria da uno dei regimi più brutali e sanguinari del pianeta.
Gheddafi aveva preso il potere, quarantadue anni fa, in piena epoca di nazionalismo arabo, sull’onda della lezione egiziana di Nasser. Il colonnello e i suoi compagni sembrava inzialmente dovessero dar vita a un originale socialismo arabo, in piena epoca di terzomondismo e di non allineati, rispetto ai grandi blocchi politico-militari, Usa e Urss, che allora dominavano il mondo. Quel colpo di stato spazzava via un regime corrotto e dominato dal colonialismo occidentale. Ma, rapidamente, Gheddafi ha imboccato un’altra strada. Il libretto verde, la fusione di Islam e di vaghe tematiche sociali, il sostegno a gruppi terroristici, la rottura con molti compagni della prima ora, hanno rapidamente trasformato la Libia in una feroce dittatura familiare, in cui Gheddafi, i suoi congiunti e la cerchia dei fedeli hanno rapidamente accumulato grandi ricchezze personali, fomentato le divisioni tribali e mantenuto la società libica in una condizione di paura e di passività. (continua…)
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Da Lettera 43 di venerdi 21 ottobre 2011
Al posto dei commentatori del centrodestra sarei cauto nel salutare la vittoria di Michele Iorio in Molise come una vittoria politica di quello schieramento e, ancor più, di Silvio Berlusconi. Non solo perché la coalizione di Iorio, allargata all’UDC che del premier chiede le dimissioni, partiva da un vantaggio quasi incolmabile; ma anche perché Iorio non ha voluto il nome di Berlusconi nel proprio simbolo, ed è stata condotta una campagna elettorale volutamente distaccata da quanto avviene a Roma e nel resto del Paese.
Ma al posto dei commentatori del centrosinistra eviterei di minimizzare la portata di una mancata vittoria, pur sfiorata per pochi voti, anche a causa delle scelte del Movimento di Beppe Grillo. Non nel senso che i contestatori interni di Pierluigi Bersani sostengono -che cioè quello del Molise è un test indicativo dello stato di salute del Pd e delle opposizioni in Italia-. Ma perché in Molise perde un candidato, Paolo Di Laura Frattura, ex di Forza Italia, secondo lo schema di tutti i teorici della necessità di “conquistare il centro”, slavando il proprio carattere alternativo, come ha giustamente notato il Presidente della Toscana Enrico Rossi. E, visto che si è fatto un gran parlare, con scandalo, della “foto di Vasto” (e cioè dell’incontro tra Bersani, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro), bisognerebbe parlare della “foto di Campobasso”, che da Vasto dista non molti chilometri e nella quale, pur mancando l’UDC, spicca addirittura come candidato Presidente un ex di Forza Italia. (continua…)
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Da Sardegna Quotidiano di Giovedi 20 ottobre 2011
Che, nel segreto dei confessionali del Vaticano, molti Cardinali siano stati in questi anni assai propensi all’indulgenza nei confronti del Cavaliere, prima e anche dopo l’emergere pubblico della sua frenetica vita privata, lo sapevamo già. Del resto, soprattutto prima del Papato di Benedetto XVI°, troppa indulgenza interna era stata riservata anche ai peccatori in tonaca. E che in Italia sia una fesseria descrivere il mondo cattolico come un mondo compatto e coeso, e che esista -accanto alle lotte politiche interne alla Chiesa italiana- un cattolicesimo democratico, talvolta radicale nelle sue posizioni su grandi temi sociali, della pace e relativi ai beni comuni (dalle testimonianze di uomini come Alex Zanotelli e don Andrea Gallo alle posizioni di grandi riviste e grandi associazioni cattoliche), lo sapevamo pure. (continua…)
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Da Sardegna Quotidiano di oggi
Eravamo stati fin troppo facili profeti. Gli ingredienti c’erano tutti. Al momento in cui scrivo, non conosciamo il bilancio della giornata. La guerriglia è ancora in corso, e speriamo che le conseguenze non siano ancora più gravi di quelle finora conosciute.
Un plauso va fatto alle forze dell’ordine, che così come aveva annunciato il Capo della Polizia, Antonio Manganelli, e lo stesso Ministro dell’Interno Roberto Maroni, hanno svolto un compito difficilissimo avendo chiaro l’obiettivo di non far degenerare in forma ancora più drammatica la situazione.
Ma, al di là della cronaca “militare”, la manifestazione di Roma, contrariamente a quanto avvenuto nelle altre metropoli del mondo, si prestava ad una degenerazione per tre ragioni. La prima è che il movimento degli indignati, nato per emulazione del fenomeno spagnolo, non ha avuto in Italia quelle caratteristiche di spontaneità e di speranza che ha avuto a Madird, a New York o in Asia. Qui subito si è presentato come un cartello di sigle e associazioni -molte delle quali protagoniste delle mobilitazioni pacifiste e dei recenti referendum ambientali- molto frastagliata, senza leadership politica unitaria e riconosciuta; e in questo cartello hanno trovato spazio settori “antagonisti” che, pur non essendo black bloc, hanno un’organizzazione pronta allo scontro. Fino a qualche giorno fa non una barriera è stata frapposta (e questo è un grave errore dei promotori) tra i non violenti e i violenti, o coloro che comunque salutano gli atti “militari” con soddisfazione. Ora si dice giustamente che ci sono stati due cortei. Ma nessuno può liquidare le scene viste in diretta TV come l’opera di cinquanta black bloc. Centinaia, forse alcune migliaia di persone erano preparate, secondo un piano in parte prestabilito, allo scontro violento. Così stride la volontà del tutto maggioritaria di protesta di un popolo immenso che ha manifestato, e quella di pochi di mettere in scena lo show paramilitare.
La seconda ragione è che la debolezza politica e di consenso di Silvio Berlusconi, accompagnata dalla riconferma della fiducia ottenuta con espedienti di ogni tipo, accentua drammaticamente il fossato tra Paese Reale e Paese Legale. In Italia, a differenza di altrove, gli indignati come larga parte dell’opinione pubblica si trovano a dover conciliare drammatiche diffficoltà sociali e di vita con un’arroganza e una prepotenza del Potere che non ha paragoni in Occidente. E tutto ciò costituisce il terreno di coltura privilegiato per una radicalizzazione del conflitto fino alla violenza aperta.
Ma la terza ragione per cui la manifestazione romana poteva degenerare ed è degenerata, tradendo le attese della gran parte dei partecipanti, è che si conferma -nel movimento e nelle forze politiche- un grande vuoto di rappresentanza. Non vogliamo far torto alla fatica delle opposizioni parlamentari, a fronte di un Governo giunto alla fine ma che si ostina, al di là di ogni ragionevole limite, di rimanere in sella. L’errore delle opposizioni non sta tanto nella strategia o nella tattica parlamentare, ma nell’assenza di consapevolezza che se non viene promossa una forte azione unitaria, mettendo a tacere le divisioni interne, e se non ci si raccorda, anche con la necessaria umiltà, a tutto quello che si muove nel Paese, si rischia di avere una grande indignazione senza guida politica, che, a causa di queste ragioni, va sui giornali per il teppismo e la distruzione seminati da bande a cui interessa solo il caos.
Questo sabato di fuoco deve insegnare a tutti -a partire dal movimento e dai partiti delle opposizioni- qualcosa di importante. Altrimenti il futuro rischia di essere persino peggiore del presente.
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Da Lettera 43 di ieri
L’ennesima vittoria parlamentare di Silvio Berlusconi, e l’ennesima sconfitta delle opposizioni che avevano provato a far mancare il numero legale e che sono state abbandonate all’ultimo dai radicali, racconta della quasi incolmabile distanza tra Paese Legale e Paese Reale. L’alfiere della personalizzazione più estrema della politica -colui che diceva di essere eletto direttamente dal popolo, in barba alla Costituzione che stabilisce che l’Italia è una Repubblica parlamentare- si rifugia, di fronte a una caduta verticale di consensi nell’opinione pubblica, nella indiscutibile legittimità, prevista proprio dal nostro ordinamento, di un risicatissimo voto di fiducia. Poco importa cosa succede fuori dal Palazzo. E tutto ciò, di fronte all’impoverimento drammatico di una parte dell’Italia e all’insopportabile condizione di precarietà dei giovani, sottolinea l’impotenza dell’azione parlamentare delle opposizioni. (continua…)
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Da Sardegna Quotidiano di oggi
Che il giorno del funerale delle cinque operaie di Barletta, salariate in nero a quattro euro all’ora, uccise dall’incuria e dallo sfruttamento, Silvio Berlusconi dica, pensando che qualcuno ancora si diverta, che il nuovo partito anti-PdL lo potrebbe chiamare Forza gnocca, racconta del punto più basso del degrado politico e morale in cui l’Italia sta affondando. Pierluigi Bersani e Nichi Vendola hanno giustamente sottolineato questa circostanza. La verità è che il premier vive in un mondo oramai separato dalla realtà: fatto dalle sue ossessioni sessiste, dai timori crescenti per l’incedere delle inchieste che lo riguardano, da una cultura del sospetto propria di tutti i protagonisti di lunghi regimi alla fine del loro ciclo. Non accettano la sconfitta, non si vogliono mettere da parte, non studiano neppure una linea difensiva convincente, vivono sospettando di tutti coloro che fino a poco prima li avevano blanditi e ossequiati. (continua…)
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Da Lettera43 di oggi
La fine al rallentatore del ventennio berlusconiano -che nessuno, neppure in casa PdL, contesta, e che si accompagna al tramonto di Umberto Bossi e a una divisione senza precedenti nella Lega- trascina con sé i destini di tutto il Paese. La società, nelle sue pieghe più profonde, è attraversata da un sentimento di cupo pessimismo, da un’assenza di speranza che può liberare istinti radicali e violenti. I grandi mediatori sociali -valga per tutti l’esempio di Confindustria, e lo scontro tra Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne- perdono peso e rappresentatività.
Moses Naim, intellettuale venezuelano, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi da La Repubblica sostiene, non a torto, che al futuro dell’Italia occorrerebbe guardare con più ottimismo, o per lo meno che occorrerebbe promuovere un nuovo ottimismo. (continua…)
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Dall’Unità di oggi
Matteo Renzi e Tomaso Montanari sono due giovani brillanti. Il primo, più giovane e più noto, nell’estate appena conclusa ha proposto un referendum tra i fiorentini per approvare o bocciare la sua idea di completare la Basilica di San Lorenzo secondo il progetto michelangiolesco. Il secondo, Professore associato all’Università di Napoli, ha recentemente pubblicato un pamphlet frizzante contro l’uso disneyano delle opere d’arte e la commercializzazione dei beni culturali (“A cosa serve Michelangelo?”, Einaudi). Non si fa fatica a dare ragione a Montanari -che muove dalla vicenda dell’acquisto da parte del Ministero dei Beni Culturali di un Crocifisso assai sbrigativamente attribuito a Michelangelo- e che denuncia, a trecentossessanta gradi, la pochezza spettacolare di molte iniziative, spesso promosse o annunciate (come nel caso di San Lorenzo) da sindaci in cerca di popolarità facile. Del resto è evidente a tutti che la simpatica, guascona e per fortuna inattuabile iniziativa del sindaco Renzi volta a rifare la facciata di San Lorenzo secondo il progetto michelangiolesco ha avuto il merito di “spettacolarizzare” al massimo la discussione sulla conservazione e sulla valorizzazione dei beni culturali.
Questa idea di politica culturale come “show” non è un’invenzione di Matteo Renzi. E’ propria di alcuni sindaci eletti direttamente i quali, alla stregua degli imperatori romani che organizzavano i giochi per celebrare i propri trionfi, hanno concepito la politica culturale dei Comuni come strumento di costruzione del consenso. L’eventismo esasperato -oggi ridotto a causa dei tagli operati nei confronti degli Enti Locali- ha sottratto risorse ai beni culturali e a quella che chiamerei una “politica industriale della cultura”, e cioè un’azione sistematica, controllata e concordata di valorizzazione sostenibile dei giacimenti culturali. (continua…)
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