Da Sardegna Quotidiano di oggi
La guerra senza esclusione di colpi, condotta con ogni mezzo, tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti rischia di portare a fondo l’Italia. Non si tratta più di una contesa interna al Pdl e al centrodestra: ma di una patologia che sta già offrendo agli speculatori internazionali il destro per un’operazione molto pesante sul nostro Paese. Nella detestata Prima Repubblica si sarebbe corso ai ripari, stringendo le fila del Governo nell’emergenza. Nella detestata Democrazia Cristiana – dove gli odii e i rancori interni non erano certo inferiori a quelli che vengono rappresentati oggi- rimaneva tuttavia un collante, ideologico e di potere, che impediva la dissoluzione. Dopo aver assistito alla guerra tra il premier e Gianfranco Fini, nella quale furono usate armi proibite, con un ricorso a scorciatoie giudiziarie e a veline più o meno attendibili dei servizi, il film, sotto forma di tragedia – poiché è in gioco la manovra economica e l’accoglienza internazionale che ad essa si riserva-, si ripete, cambiando uno dei protagonisti. Il coinvolgimento dell’on.Milanese, e il fango che viene spruzzato addosso al Ministro dell’Economia -inconsapevole di utilizzare l’abitazione romana dell’amico deputato, per la quale quest’ ultimo pagava la bellezza di 8500 euro mensili- fa svanire la credibilità del grande rigore rispetto ai costi della politica, sbandierato da Tremonti come premessa per la manovra lacrime e sangue da lui proposta.
Certo: non sosterremo la tesi che dietro ai magistrati ci sia la politica. Non la pensavamo così ieri, quando il sospetto veniva agitato contro la sinistra, non la pensiamo così oggi quando si potrebbe discettare della convenienza che ha Berlusconi nel vedere minata la credibilità del proprio Superministro, da molti ambienti indicato come possibile protagonista di una fase di transizione post-.berlusconiana. Ma che ambienti della polizia giudiziaria, connessi ai vertici della Finanza o di altri corpi dello stato, abbiano potuto avvisare per tempo gli avversari interni di Tremonti, e che questi ultimi abbiano orchestrato una campagna mediatica a lui ostile, è un’ipotesi assolutamente plausibile. Tutto è poi precipitato con il pasticcio della norma pro-Fininvest, inserita e poi ritirata nella manovra.
Del resto, come avevamo già segnalato, l’investitura di Alfano -oggi giunta fino all’indicazione diretta della sua candidatura a premier nel 2013- sancisce la totale indisponibilità di Berlusconi ad una transizione diversa da quella di una sua successione, quasi monarchica, alla guida del Pdl. La rivolta di Formigoni e i malumori di molti settori del partito principale di governo la dicono lunga.
Ma è l’Italia che ora rischia. Non siamo in grado di prevedere le mosse o le reazioni di Tremonti all’inchiesta di Napoli e all’intervista del premier a La Repubblica. Certo è che le vittime di questa condizione rischiano di essere gli italiani: o perché, nello scenario peggiore, quest’avvitamento politico-morale del Governo fa precipitare l’Italia in una situazione greca; o perché, com’è più probabile -viste le risorse grandi dell’economia e della società italiana-, questo conflitto intestino rende più difficile cambiare la manovra nei suoi numeri generali e, soprattuttto, nella sua composizione. L’Italia dovrebbe avere il coraggio, come ha scritto sul Corriere uno dei più bravi banchieri italiani, Pietro Modiano, di darsi come misura di giustizia e di coesione sociale una patrimoniale che intervenga sulle grandi ricchezze, costruita nella concertazione e nel consenso, e misure che chiedano a tutte le caste -politiche, economiche, mediatiche- di rinunciare a privilegi odiosi ed inaccettabili.
Non si può che auspicare, a fronte della confusione e delle preoccupazioni di queste ore, un dibattito aperto in Parlamento che cambi sostanzialmente la manovra e che eviti all’Italia l’onta di scivolare in fondo al già sgangherato barile europeo.
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